posto auto condomino disabile

Posto auto vicino per il condomino disabile Il condomino con capacità di deambulazione ridotta ha il diritto di parcheggiare il più vicino possibile al portone di ingresso alla sua abitazione

Posti auto in condominio

E’ quanto ha stabilito con sentenza del 02/12/2021 il Tribunale di Verbania. La fattispecie prende le mosse dall’impugnativa della delibera assembleare con cui il condominio aveva rigettato la richiesta di un condomino nella parte in cui chiedeva che uno dei posti auto all’interno del cortile condominiale ed in prossimità dell’ingresso del suo fabbricato, fosse assegnato ai portatori di handicap con contestuale accertamento del diritto dello stesso condomino ad ottenere l’assegnazione di detto posto in quanto affetto da disabilità.

Legge 13/1989

Particolarmente interessante questa pronuncia in considerazione che tra le altre sue difese, il convenuto condominio precisava che la richiesta non avrebbe avuto fondamento normativo atteso che, dovendosi applicare la legge n. 13 del 1989, essa avrebbe valore solo per gli immobili costruiti successivamente, mentre il condominio era stato edificato in epoca precedente alla emanazione della detta legge.

Motivava altresì che il condomino era anche proprietario di un garage posto a poca distanza dall’ingresso e che egli poteva usufruire alla pari degli altri condomini dei sette stalli in uso a tutti. Infine, che questi confinavano anche con area pubblica su cui esisteva già un parcheggio dedicato ai portatori di handicap.

Diritto del disabile

L’importanza di questa sentenza consiste nel fatto, che il tribunale dopo aver collegato il diritto del disabile a quello ad una normale vita di relazione ex art. 2 Cost. lo ritiene preminente rispetto a quello della proprietà (art. 42 co. 2 Cost) testualmente “che può al contrario subire limitazioni al fine di assicurare il rispetto del dovere di solidarietà sociale di cui appunto all’art. 2 Cost.”.

Per cui, pur escludendo nel caso di specie l’applicazione della legge n. 13 del 1989 in quanto il condominio era stato costruito in epoca antecedente; finisce con il riconoscere al condomino ricorrente:

1) il diritto ad ottenere che il condominio destini uno dei posti auto ubicati nelle vicinanze dell’ingresso a parcheggio per portatori di handicap;

2) ad ottenere che detto posto gli venga assegnato atteso il riconoscimento di portatore di handicap sensibilmente ridotta.

torrino scale

Torrino scale: proprietà comune Per la Cassazione, il torrino sovrastante le scale è di proprietà comune anche se i lastrici solari se li è riservati il costruttore

Torrino scale

La Corte di Cassazione (cfr. n. 11771/2019) ha affermato la proprietà dei condomini e non del costruttore che pure si era riservata la proprietà dei lastrici. Evidenziava la Corte che il primo giudice aveva correttamente opinato nel senso che i titoli di acquisto dei singoli appartamenti escludevano dalla comunione i lastrici solari, non già i torrini sovrastanti le “casse – scala”; che del resto indubitabile era la differenza strutturale tra i lastrici ed i torrini, vieppiù avvalorata dalla suddivisione delle spese relative alla manutenzione dei torrini.

Testualmente: “Invero la corte territoriale in modo inappuntabile ha recepito il dictum di prime cure, che a sua volta in maniera ineccepibile aveva rilevato (in relazione all’incipit dell’articolo 1117 c.c.: “sono oggetto di proprietà’ comune dei proprietari di diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo: (…)”) che “i titoli di acquisto dei singoli appartamenti non escludevano dalla comunione i torrini, ma solo i lastrici solari”.

Lastrico solare e torrini scale

Tale determinazione è da considerarsi del tutto legittima in quanto in tema di condominio negli edifici, per lastrico solare deve intendersi la superficie terminale dell’edificio che abbia la funzione di copertura – tetto delle sottostanti unità  immobiliari, comprensiva di ogni suo elemento, sia pure accessorio, come la pavimentazione, ma non estesa a quelle opere ivi esistenti che, sporgendo dal piano di copertura, siano dotate di autonoma consistenza e abbiano una specifica destinazione al servizio delle parti comuni; sicchè non possono ricomprendersi nella nozione di lastrico solare i torrini della gabbia scale e del locale ascensore con la relativa copertura, i quali costituiscono distinti e autonomi manufatti di proprietà  condominiale sopraelevati rispetto al piano di copertura del fabbricato (cfr. Cass. n. 27942/2013).

Del resto in sede di interpretazione del contratto, il giudice di merito, ove ritenga di aver ricostruito la volontà delle parti sulla base delle espressioni letterali usate, non ha l’obbligo di fare ricorso ai criteri ermeneutici sussidiari, la cui adozione è legittima (e necessaria) solo quando l’interpretazione letterale dia adito a dubbi (cfr. Cass. n. 9438/2000).

condominio parziale

Condominio parziale e lesioni: chi paga? La Cassazione chiarisce che le spese di ricostruzione di un solo corpo di fabbrica sono a carico dei condomini cui il bene comune serve

Condominio parziale e riparto delle spese: i fatti

Al fine di analizzare l’interessante arresto giurisprudenziale cui giunge la II sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13229 del 16 maggio 2019 in tema di condominio parziale, è opportuno prendere le mosse dal dato normativo. Premesso il disposto di cui all’art. 1117 c.c. che elenca, salvo titolo contrario, le parti comuni dell’edificio, la norma-cardine in tema di condominio parziale è l’art. 1123 c.c. 3 comma.

Tale norma, pur intitolata alla  “ripartizione delle spese” stabilisce espressamente:

“Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

Quindi, il presupposto per l’attribuzione in proprietà comune a tutti i condomini viene meno se le cose, gli impianti e i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei condomini (cfr. Trib. Salerno sent. 1517/2015; Cass. civ. II, n. 1680/2015).

Le conseguenze di ciò si riverberano anche nella gestione del fabbricato, nella ripartizione delle spese e consistono nel fatto che ogni atto ed ogni attività di amministrazione e/o di utilizzazione devono essere compiuti all’interno del condominio parziale, escludendo dai partecipanti quelli che sono proprietari di immobili che non godono di quel servizio o impianto, non ricevendo dallo stesso alcuna utilità.

A conferma di quanto sopra anche l’art. 1136 c.c. (“costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”), che al penultimo comma, stabilisce: “l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Mentre, antecedentemente alla Riforma, si faceva riferimento ai “condomini”, oggi attraverso la dicitura degli “aventi diritto” il legislatore ha adeguato l’impianto finendo così per riconoscere anche legittimità delle assemblee del  “condominio parziale”.

L’art. 1117 c.c. e il suo coordinamento con l’art. 1123, 3 comma, c.c.

In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto. Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.

Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.

In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».

La Cassazione (sent. n. 7885/1994)  determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà se si legge il comma in questione[1]  non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame, sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: « In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. III comma,  la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

Il caso affrontato dalla Cassazione

La fattispecie oggetto di analisi da parte della Suprema Corte attiene al riparto delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da tre corpi di fabbrica separati da giunti tecnici. Siamo, quindi, in presenza di tre fabbricati distinti tra di loro per tipologia costruttiva e che a loro volta danno luogo a tre distinti condomini. Invero, il nesso di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive sia estese in verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (cd. “condominio orizzontale”).

Ora, con riferimento al caso in commento, veniva impugnata una delibera assembleare che approvava la ripartizione delle spese – effettuata in base ai millesimi di proprietà generale dell’intero complesso edilizio – per il risanamento di alcuni pilastri posti al di sotto di in solo corpo di fabbrica.

La Cassazione, dopo aver delineato caratteri, presupposti, contenuto e limiti dell’istituto del condominio parziale, conferma la validità, per questo singolo caso concreto, della ripartizione effettuata per tabella generale di proprietà relativa a tutte e tre i fabbricati.

Ed infatti, seguendo gli accertamenti cui si era pervenuti in sede dei giudizi di merito, a dare prova della corretta ripartizione era proprio la circostanza che i pilastri pur risultando strutturalmente portanti per un solo corpo di fabbrica essi sostenevano non solo l’edificio sovrastante ma anche altri elementi comuni a tutti gli altri edifici (nel caso de quo un camminamento su porticato esterno condominiale). Diversamente, ove detti pilastri avessero avuto la funzione di servire solo il relativo corpo di fabbrica, il riparto delle spese per gli interventi di consolidamento avrebbe dovuto essere improntato al differente criterio di cui al terzo comma dell’art. 1123 c.c. 3° comma. Ciò in ossequio al principio di cui all’istituto del condominio parziale.

Riflessi in tema di gestione e amministrazione

La disciplina del condominio parziario si riflette anche nella validità delle convocazioni assembleari che devono avere come destinatari i soli condomini interessati;  nella costituzione della stessa assemblea che deve riportare i millesimi di comproprietà dei singoli condomini riferiti al condominio parziale e conseguentemente per lo stesso motivo anche alla fase della deliberazione.

Ora, tutti questi potrebbero apparire, a prima vista, vizi di mera annullabilità. Invero, la giurisprudenza ha più volte sancito, soprattutto negli ultimi tempi, che l’erronea determinazione dei soggetti che debbono partecipare alla decisione comporta il vizio di incompetenza dell’assemblea stessa con conseguente nullità assoluta e non mera annullabilità della decisione.

Tale più grave forma di invalidità può essere rilevata da ciascun condomino in ogni tempo. Si immagini per esempio che al posto di convocare i condomini interessati ai lavori straordinari di una scala o di un impianto a servizio di un’unica verticale si convocassero i condomini di altra scala o di altra verticale. Oppure, ancora, si faccia l’esempio dell’erroneità del riparto delle spese per i casi come quello appena descritto: si avrebbe una violazione in astratto dei criteri legali con conseguente nullità della delibera perché approvata in assenza di accordo unanime di tutti i partecipanti al condominio parziale.

Profili processuali del Condominio parziario

L’azione di accertamento negativo

Il condomino che in sede di riparto delle spese fatte dall’amministratore ritenga che esse non lo riguardino in quanto egli non è proprietario del bene per cui si è proceduto alla manutenzione, potrà chiedere al giudice, con una azione di accertamento ex art. 1123 c.c., che venga dichiarata la mancanza dell’obbligo al pagamento delle stesse in qualsiasi momento e ciò anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Cass. VI/II, ord. n. 33039/2018).

La legittimazione dell’amministratore

Ulteriori profili processuali di interesse per la figura del Condominio parziale attengono alla legittimazione dell’amministratore che è da ritenersi esclusiva anche se si controverte in materia di danni arrecati a terzi cagionati dalla cattiva custodia e manutenzione di un bene “che non appartiene a tutti i condomini”.

In presenza di condominio parziale, infatti, la legittimazione processuale spetta in ogni caso all’amministratore né il condominio parziale ha legittimità a nominare altro e diverso rappresentante in giudizio (Cass. 1264/2016, Cass. 651/2000, Trib. Salerno sent. n. 1517/2015)

Il riparto delle spese

E’ proprio dalla sentenza in esame che può trarsi il seguente principio: nei giudizi di risarcimento del danno per la cattiva manutenzione di un bene comune solo ad alcuni degli immobili in condominio, pur essendo la sentenza di condanna diretta al Condominio generalmente inteso, è poi onere dell’amministratore, in sede di riparto interno, fare buon governo dei principi di cui all’artt. 1123 c.c. 3 comma (Cass. civ. II, nn. 4436/2017 e 2363/2012).

 

[1] L’articolo 1123  III comma c.c. testualmente recita: «Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità».

convocazione assemblea condominio

Convocazione assemblea: l’amministratore non è obbligato ad allegare i bilanci La Cassazione chiarisce che non si configura un obbligo per l’amministratore di allegare all’avviso di convocazione anche i documenti giustificativi o i bilanci da approvare, è sufficiente l'ordine del giorno

Rendiconto e convocazione assemblea: i fatti

Un condomino impugnava la delibera assembleare per mancata allegazione del rendiconto all’avviso di convocazione contenente l’ordine del giorno. Il Giudice di prime cure respingeva la domanda attorea rilevando che il bilancio era stato allegato alla delibera di approvazione comunicata al condomino il quale non aveva, nelle more, richiesto di visionare e/o ricevere il predetto documento.

L’esito del processo di primo grado veniva ribaltato in Appello, in quanto la Corte riteneva che il bilancio dovesse essere comunicato preventivamente al condomino, essendo altrimenti leso “il diritto all’informativa generica con riferimento a quanto oggetto di assemblea”, non potendo a tal fine sopperire il successivo invio dell’atto, unitamente alla delibera di approvazione, dovendosi osservare l’obbligo di informazione in via preventiva e non successiva.

Allegazione rendiconto alla convocazione non necessaria

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21271/2020 accoglie il ricorso del Condominio ritenendo come non necessaria l’allegazione del rendiconto in sede di convocazione. Ed infatti, a parere della Corte, l’obbligo di preventiva informazione dei condomini in ordine al contenuto degli argomenti posti all’ordine del giorno dell’assemblea risponde alla finalità di far conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi, l’oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentire una partecipazione consapevole alla discussione ed alla relativa deliberazione (conformi Cass. civ. II sent. n. 21966/2017; Cass. civ. II sent. n. 25693/2018; Cass. civ. VI/II ord. n. 15587/2018).

Obbligo rispettato con l’invio dell’ordine del giorno

In altri termini, non si configura un obbligo per l’amministratore di allegare all’avviso di convocazione anche i documenti giustificativi o i bilanci da approvare, non venendo pregiudicato il diritto alla preventiva informazione sui temi in discussione, fermo restando che a ciascun condomino è riconosciuta la facoltà di richiedere, anticipatamente e senza interferire sull’attività condominiale, le copie dei documenti oggetto di eventuale approvazione.

Ove tale richiesta non sia stata avanzata, il singolo condomino non può poi invocare l’illegittimità della successiva delibera di approvazione per l’omessa allegazione dei documenti contabili all’avviso di convocazione dell’assemblea, ma può impugnarla per motivi che attengono esclusivamente alla modalità di approvazione o al contenuto delle decisioni assunte.

Conclusioni

La soluzione proposta dalla Cassazione appare improntata ad equità soprattutto se si tiene conto che la Riforma ha onerato l’amministratore alla tenuta di una ricca mole di documentazione contabile (si vedano gli elementi di cui deve comporsi obbligatoriamente il rendiconto, passati in rassegna in apertura del presente commento). Se ciò è vero, altro è affermare che tutti i predetti documenti devono essere spediti in sede di convocazione assembleare per l’approvazione dei rendiconti, con oneri cospicui a carico di tutto il Condominio. La trasparenza, a dire della Corte, è comunque rispettata stante lo strumento di richiesta di accesso alla documentazione presso lo studio dell’amministratore, da effettuarsi comunque senza sfociare in “mere esplorazioni”.

Il provvedimento in commento aderisce, dunque, ad un orientamento che sembra guadagnare consensi nel panorama giurisprudenziale di legittimità e di merito (Cass. civ. II sent. n. 21966/2017; Cass. civ. II sent. n. 25693/2018; Cass. civ. VI/II ord. n. 15587/2018)

Non si può non dare atto, tuttavia, del differente indirizzo interpretativo (ex multis Cass. civ. VI/II n. 33038/2018) maggiormente rigoroso e formalista, prevalente fino agli inizi dello scorso decennio, (contraria solo Corte Appello Roma, sent. 21 dicembre 1995), alla stregua del quale la mancata allegazione degli elementi del rendiconto all’avviso di convocazione produrrebbe comunque l’invalidità della delibera. La forma di tale invalidità viene comunque individuata nell’annullabilità, e pertanto la delibera viziata sarebbe comunque sanabile in mancanza di impugnativa nel termine di trenta giorni dalla delibera (per i condomini presenti, dissenzienti o astenuti) o dalla ricezione del verbale (per gli assenti).

regolamento condominiale

Regolamento condominiale contrattuale nullo Il regolamento condominiale può essere deliberato a maggioranza o all’unanimità. In quest’ultimo caso si parla di regolamento contrattuale: i casi di nullità

Cos’è il regolamento condominiale

Il regolamento condominiale è il complesso di norme con cui i condomini intendono disciplinare la pacifica convivenza all’interno dell’edificio.

Al suo interno possono rinvenirsi regole che riguardano i più disparati aspetti della vita in condominio, come la pulizia dei locali comuni, la gestione delle spese, l’individuazione di fasce orarie in cui evitare attività rumorose etc.

Come vedremo tra breve, vi sono alcuni limiti alla libertà dei condomini di decidere il contenuto del regolamento condominiale. Prima di esaminarli, però, è opportuno premettere che il regolamento condominiale può essere di due tipi: assembleare o contrattuale.

Regolamento assembleare e regolamento contrattuale

Un valido regolamento condominiale può essere approvato con una deliberazione assembleare adottata con il voto della maggioranza dei presenti alla riunione.

In particolare, per l’approvazione del regolamento condominiale assembleare è necessario un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (cfr. art. 1336 secondo comma del codice civile, richiamato dall’art. 1338 c.c. terzo comma).

Quando, invece, il regolamento è approvato all’unanimità da tutti i condomini, si parla di regolamento condominiale contrattuale.

L’unanimità può essere raggiunta in due modi diversi: o con una deliberazione assembleare adottata con il voto favorevole di tutti i condomini (e con tutti i condomini presenti) oppure con l’approvazione del regolamento all’atto dell’acquisto dell’immobile dal costruttore. Quest’ultima ipotesi si verifica quando il costruttore predispone egli stesso il regolamento condominiale: l’unanimità viene raggiunta attraverso i diversi acquisti delle unità immobiliari da parte dei proprietari.

Il contenuto del regolamento approvato all’unanimità

Il regolamento condominiale contrattuale può avere un contenuto più ampio rispetto a quello assembleare. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo limitare il libero godimento della proprietà esclusiva di ciascun condomino, né prevedere un criterio di riparto delle spese condominiali diverso da quello previsto dalle tabelle millesimali.

Invece, il regolamento approvato all’unanimità può prevedere limiti relativi alla proprietà esclusiva di ciascun condomino (ad esempio, vietando la possibilità di destinare le unità immobiliari all’esercizio di determinate attività professionali) o prevedere un riparto differente delle spese.

Entrambi i tipi di regolamento, però, devono rispettare il limite previsto dal quarto comma dell’art. 1338 c.c., che individua alcune norme del codice civile alle quali in nessun caso il regolamento condominiale può derogare.

Regolamento condominiale contrattuale nullo e impugnazione

In base a quanto appena esaminato, si è in presenza di regolamento condominiale nullo ogni qual volta le clausole di un regolamento approvato solo con la maggioranza di cui sopra si è detto deroghino ai criteri di ripartizione millesimale delle spese o dispongano una limitazione del libero godimento della proprietà esclusiva del singolo condomino.

Il regolamento condominiale nullo può essere impugnato davanti al tribunale per richiederne l’annullamento.

A tal riguardo, va notato che, se si tratta di regolamento approvato all’unanimità (quindi di regolamento contrattuale), la nullità di una clausola in esso contenuta va contestata in giudizio a tutti gli altri condomini (in qualità di controparti del contratto) e non invece nei confronti dell’amministratore del condominio, che resta parte terza rispetto al regolamento contrattuale.

Quanto appena detto è confermato da autorevole giurisprudenza: cfr., tra tante, Cass. Civ., VI sez., ord. n. 6656/2021, secondo cui “il regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, allora, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), il quale è carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario”.

spese rifacimento balconi

Balconi: spese di rifacimento a carico dei soli proprietari Per la Cassazione, è nulla la delibera assembleare che dispone il rifacimento dei balconi di natura individuale ripartendo le spese tra i condomini in parti uguali

Riparto spese manutenzione balconi

Il riparto delle spese di manutenzione dei balconi è tematica sovente foriera di contrasti in assemblea. Ciò anche in considerazione del fatto che il codice civile non fornisce alcuna nozione di balcone, limitandosi solo a non menzionarlo nell’elenco delle “parti comuni”. Questa lacuna è stata colmata dall’opera della dottrina e della giurisprudenza, chiamate in più occasioni a fare chiarezza sul punto.

In base alle caratteristiche esteriori dei balconi, questi possono suddividersi in due macro-categorie:

1- “balconi aggettanti”, che sporgono rispetto alla facciata e sono di proprietà esclusiva del proprietario dell’appartamento dal quale vi si accede costituendone un prolungamento.

Il proprietario dell’immobile è, dunque, titolare del diritto di proprietà (e dei relativi obblighi di manutenzione e custodia) anche della pavimentazione, elemento fondamentale nella soluzione al caso in commento risolto dalla Cassazione.

Quanto detto non vale per gli elementi decorativi del balcone (parapetti, cielini o sottobalconi) per il caso in cui gli stessi siano idonei a svolgere funzione di decoro caratterizzanti l’estetica dell’edificio e che, in simili fattispecie, rientrano nel novero delle parti comuni, precisamente della facciata (Cass. civ. II n. 30071/2017).

Questa è una valutazione che deve effettuarsi in riferimento a ciascun caso concreto tenendo presenti le caratteristiche del singolo fabbricato in questione.

Una delle conseguenze di quanto detto è che il proprietario di un piano inferiore non vanta diritti sulla parte inferiore del balcone aggettante del piano sovrastante e quindi, ad esempio, non potrà agganciare una tenda alla soletta del balcone superiore senza acquisire il preventivo consenso del proprietario dello stesso.

2- “balconi incassati” (detti anche “loggia”), viceversa, sono quelli che non sporgono rispetto alla facciata. L’accesso ai medesimi si raggiunge dai locali interni e tale tipologia di balconi (detti anche “terrazze incassate”) presentano uno o più “lati aperti” (rispettivamente avremo balconi “incassati a U” ovvero balconi “incassati a L”). La pavimentazione è parte integrante del locale da cui vi si accede e, di norma, funge da copertura per l’appartamento sottostante, individuandosi così due soggetti interessati per il riparto delle spese di manutenzione.

Recente giurisprudenza ha, tuttavia, sottolineato che anche una terrazza incassata può essere considerata di proprietà esclusiva del condomino-proprietario dell’appartamento da cui si accede a condizione che così risulti dal titolo (diritto di proprietà) o anche nell’ipotesi in cui la predetta loggia si configuri – funzionalmente e strutturalmente – quale parte integrante del piano cui è  annessa, in modo tale per cui la funzione di copertura del piano sottostante risulti meramente sussidiaria.

Anche in questo caso occorrerebbe un’indagine tecnico-valutativa sulla singola fattispecie concreta.

Per la parte ”aperta” di tale tipologia di balconi, ove rientrante nella facciata (parte comune ex art. 1117 c.c., salvo titolo contrario), può riprendersi lo stesso discorso già effettuato sopra circa la funzione di decoro che può, a seconda dei casi, venire in rilievo.

Balconi di proprietà esclusiva e riparto spese: il caso

Nella vicenda decisa dalla Cassazione (con ordinanza n. 7042/2020), un condomino citava in giudizio il Condominio per sentirsi dichiarare esonerato dalle spese relative al rifacimento dei balconi degli altri condomini, chiedendo il rimborso delle spese sostenute o, in subordine, la condanna del Condominio alla restituzione delle somme pagate per i balconi di proprietà esclusiva degli altri partecipanti.

Sia il Tribunale di Forlì (rectius la Sez. distaccata di Cesena) che la Corte d’Appello di Bologna rigettavano la domanda dell’attore evidenziando il difetto di legittimazione attiva in quanto la delibera impugnata aveva disposto che “ogni condomino avrebbe ristrutturato il pavimento dei balconi a proprie spese”.

Mancava, poi, a dire dei Giudici di primo e secondo grado la prova che la delibera di approvazione dei lavori avesse posto a carico dell’attore (anche in quota-parte) le spese di ristrutturazione dei balconi degli altri condomini. Prova ne era che l’impresa appaltatrice incaricata della ristrutturazione aveva emesso fattura nei confronti dei singoli proprietari.

L’istante ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Bologna denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione alla circostanza che la predetta deliberazione approvativa dei lavori limitava l’obbligo di contribuzione per le spese di manutenzione a carico dei singoli proprietari alla sola “pavimentazione dei balconi”.

Denunciava, altresì la violazione e/o falsa applicazione – ex multis – dell’art. 1117 c.c. (“parti comuni dell’edificio”) e dell’art. 1123 c.c. (“ripartizione delle spese”).

Balconi: spese a carico del proprietario

La Sez. VI/II della Suprema Corte di Cassazione accoglie il ricorso, in particolare facendo riferimento – si faccia attenzione – alla circostanza che, in via subordinata, il ricorrente chiedeva la condanna del Condominio alla restituzione delle somme corrisposte indebitamente ex art. 2033 c.c.

Nelle proprie difese l’istante aveva, infatti, più volte posto riferimento alla nullità della delibera che aveva statuito in ordine a beni di natura individuale.

In tema di Condominio negli edifici, i balconi aggettanti, in quanto prolungamento della corrispondente unità immobiliare appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti i condomini solamente i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.

Ne deriva, dunque, che le spese relative alla manutenzione dei balconi, comprensive non soltanto delle opere di pavimentazione, ma anche di quelle relative alla piattaforma o soletta, all’intonaco, alla tinta ed alla decorazione del soffitto restano a carico del solo proprietario che vi accede e non possono essere ripartite – come invece era stato fatto nel caso in questione – tra tutti i condomini in base al valore della proprietà di ciascuno.

tabelle millesimali

Tabelle millesimali: approvazione e revisione I quorum necessari per l’approvazione e per la revisione delle tabelle millesimali in condominio

Art. 1118 c.c.

L’art. 1118 c.c., come sostituito dall’art. 3 della l. 11 dicembre 2012, stabilisce espressamente che:

“1. Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene.

  1. Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni.
  2. Il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.
  3. Il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.

Premesso doverosamente il dato normativo, è opportuno sin da subito ribadire che le tabelle millesimali rappresentano lo strumento per procedere all’esatta ripartizione degli oneri condominiali ordinari e straordinari, stabilendo il valore di contribuzione delle singole unità immobiliari in relazione alle parti comuni.

In altri termini, hanno natura valutativa della proprietà ed esprimono, a un tempo, l’ampiezza del diritto spettante a ciascun condomino sulle parti comuni ed il potere di voto nelle deliberazioni assembleari, in cui si ragiona alla stregua del parametro della “doppia maggioranza”, con riferimento, da un lato, agli intervenuti e, dall’altro, ai millesimi.

Quorum per l’approvazione delle tabelle millesimali

È da premettere che fino al leading case delle Sezioni Unite del 2010 (Cass. civ.. SS.UU. n. 18477/2010), dottrina e giurisprudenza operavano una netta demarcazione tra la maggioranza necessaria per approvare la tabella generale di proprietà (cd. Tabella A) e tutte le altre Tabelle millesimali (scale, ascensori ecc.) La prima veniva, infatti, considerata quale risultato di un accordo negoziale tale da richiedere l’unanimità dei condomini per poterla modificare. Per tutte le altre era sufficiente la maggioranza degli intervenuti all’assemblea che rappresentasse la metà del valore del fabbricato (art. 1136, comma 2 c.c.). Con la sopra menzionata sentenza, tuttavia, tale netta demarcazione viene meno in quanto la tabella generale di proprietà viene considerata come mera espressione matematica della forza del voto in assemblea e misura di partecipazione alle spese di cui all’art. 1123, comma 1 c.c.. L’atto di approvazione assembleare delle tabelle viene inteso non più come accordo negoziale (per cui si necessitava di unanimità) bensì come “mera documentazione ricognitiva … dove la tabella altro non era che l’espressione della forza del voto in assemblea e del peso relativo agli obblighi”.

Ne derivava che, in forza della lettura in combinato disposto degli artt. 1138 c.c. – che richiede per l’approvazione del regolamento cd. assembleare la maggioranza di cui al secondo comma dell’art. 1136 c.c., e 68 disp. att. c.c. – si necessitava del medesimo quorum per l’approvazione e per la modifica delle tabelle millesimali.

Successivamente, entrata in vigore la l. 220/2012, la stessa modificava l’art. 69 delle disposizioni attuative del codice civile prevedendo la regola generale che i valori proporzionali delle unità immobiliari espressi nelle tabelle millesimali di cui all’art. 68 disp. att. c.c. potessero essere modificati o rettificati all’unanimità.

A tale regola era possibile derogare, prevedendosi l’applicazione della maggioranza di cui all’art. 1136 comma 2 c.c. (maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino la metà del valore dell’edificio), anche nell’interesse di un solo condomino, in due casi:

1) quando risulti che le tabelle sono conseguenza di un errore

2) quando per le mutate condizioni di parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, incremento di superfici, incremento o diminuzioni delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino.

La disposizione previgente, prevedeva, in riferimento al secondo requisito indicato, il generico requisito della “notevole alterazione” del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano.

Ora, la “nuova” disciplina prevede requisiti stringenti per la rettifica o modifica delle tabelle millesimali, con approvazione delle relative deliberazioni all’unanimità. Essa, tuttavia, non può essere estesa anche all’approvazione delle stesse, rimanendo ferme, dunque, per tale diversa fattispecie le risultanze raggiunte dalla costante opera di dottrina e giurisprudenza sul punto. (ex multis Cass. n. 11837/2013, Cass. n. 10762/2012).

 

mutamento destinazione d'uso

Tabelle millesimali e mutamento destinazione d’uso Il mutamento della destinazione d'uso e il frazionamento dell'unità immobiliare

Il mutamento della destinazione d’uso

Oggetto della presente disamina è il rapporto tra il mutamento della destinazione d’uso e la potenziale alterazione della caratura millesimale dell’immobile in condominio. Si faccia il caso, di cui pure la giurisprudenza si è occupata in diverse occasioni, che il proprietario per un qualsiasi motivo abbia a richiedere il mutamento della originaria destinazione catastale.

In tali casi, per legittimare il proprietario dell’unità immobiliare in questione a richiedere – anche a mezzo atto di citazione da notificarsi all’amministratore (e non più a tutti i condomini) – la revisione delle tabelle millesimali, occorre accertare che sussistano le condizioni di cui all’art. 69 disp. att. c.c. sopra menzionate (errore o alterazione di almeno 1/5 del valore dell’immobile).

Non è sufficiente di per sé, dunque, il mero dato del mutamento della destinazione d’uso ad incidere sull’assetto millesimale, atteso che l’individuazione dei valori proporzionali deve avvenire tenendo conto delle caratteristiche obiettive proprie degli immobili e non anche della loro possibile destinazione, determinata essenzialmente da valutazioni di carattere soggettivo, quali le personali necessità e/o le esigenze economiche (Cass.  n. 19797/2016).

Il frazionamento dell’unità immobiliare

Le medesime considerazioni valgono per il caso di divisione orizzontale in due parti di un appartamento in condominio. Con sentenza n. 15109 del 3 giugno 2019, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha analizzato tale fattispecie alla luce del criterio della “notevole alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano”.

Tale criterio era vigente in epoca ante-riforma e veniva in rilievo nella fattispecie in commento in quanto applicabile ratione temporis.

Il frazionamento aveva determinato una diversa intestazione della quota millesimale, in precedenza attribuita ad un unico condomino e ciò imponeva, al più, di adeguare le regole di gestione del condominio alla mutata situazione, mentre non ha inciso sulle tabelle millesimali, non essendosi notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzione di piano, da intendersi, allo stato, come alterazione di almeno 1/5 del valore proporzionale dell’unità immobiliare. È solo oltre tale soglia che si può richiedere ed ottenere la revisione delle tabelle.

La Cassazione conclude la disamina affermando che “grava sull’assemblea l’onere di provvedere a ripartire le spese tra le due nuove parti così create ed i rispettivi titolari, determinandone i valori proporzionali espressi in millesimi sulla base dei criteri sanciti dalla legge”.

Quanto appena detto è supportato dalla circostanza che in ambito condominiale non trova (rectius non trova più) cittadinanza il principio dell’apparenza del diritto, non sussistendo relazione di terzietà tra condominio e condomino.

Ne deriva che le spese gravano esclusivamente sul proprietario effettivo dell’unità immobiliare e che l’amministratore ha il potere/dovere di aggiornare i propri dati tenendo conto della reale composizione dell’edificio e, ai fini del riparto, anche a mezzo consultazione dei pubblici registri immobiliari (conformi Cass. civ. VI/II n. 23621/2017 e Cass. civ.  II n. 17039/2007).

 

opposizione a decreto ingiuntivo

Opposizione a decreto ingiuntivo: mediazione a carico del condominio Nell’opposizione a decreto ingiuntivo l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione spetta al Condominio

Mediazione obbligatoria

Non è richiesta la mediazione obbligatoria per le controversie relative alla riscossione dei contributi dovuti dai singoli condomini, solo quando la relativa pretesa è azionata con il ricorso per decreto ingiuntivo. Infatti, in tal caso, la mediazione obbligatoria, opererà solo nell’eventuale fase del giudizio di opposizione e solo dopo la pronuncia “sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Onere della mediazione

La riforma Cartabia ha, tuttavia, precisato all’art. 5 bis che: “Quando l’azione di cui all’articolo 5, comma 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo”.

Da ciò ne consegue che l’amministratore, in caso di opposizione del decreto monitorio, ha l’onere di presentare la domanda di mediazione.

Tuttavia, egli non è costretto a convocare l’assemblea condominiale al riguardo.

Infatti, l’amministratore del condominio, per effetto della richiamata modifica normativa  di cui all’art. 5 ter non necessita della delibera assembleare autorizzativa dall’assemblea per attivare la mediazione.

Solo se il condòmino moroso opponente parteciperà alla mediazione attivata dall’amministratore e verrà formulata una proposta transattiva in quel caso l’amministratore convocherà l’assemblea per deliberare in merito.

 

impugnazione delibera condominiale

Impugnazione delibera: in mediazione occorre indicare i motivi Il Tribunale di Napoli rimarca l'obbligo di indicare espressamente i motivi di impugnativa nel procedimento di mediazione

Obbligo di mediazione impugnativa delibera assembleare

Ai sensi dell’art. 5, co. 1, d.lgs 28/2010, chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione, il che significa che, nelle materie di cui sopra, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità è eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza.

Quando l’azione di cui all’articolo 5, co. 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo (art 5 bis, d.l gs 28/2010) e quindi sul condominio ricorrente.

Ai fini della tempestività (al fine di impedire, nella specie, la decadenza per inosservanza del termine di cui all’art. 1137, 2° comma, c.c.) della domanda di mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. 25/2010, quel che conta, afferma il tribunale di Napoli, nella sentenza n. 10208/2023, “è la comunicazione a controparte della avvenuta presentazione della domanda, e non anche della data di convocazione dinanzi all’organismo di mediazione”.

L’art. 5, 6° comma, del d.lgs. 28/2010 prevede, infatti, che “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’organismo”.

Pertanto, osserva ancora il tribunale, “non è dal momento della presentazione della domanda di mediazione, ma soltanto dal momento della relativa comunicazione all’altra o alle altre parti, che si verifica l’effetto, collegato dalla legge alla proposizione della relativa procedura deflattiva, di impedire la decadenza eventualmente prevista per la proposizione dell’azione giudiziale, come nel caso della impugnazione delle delibere dell’assemblea condominiale, ex art. 1137, 2° comma, c.c.” (cfr. Cass. 2273/2019).

Peraltro, non sembra possa validamente porsi in dubbio che l’onere della comunicazione (al fine anzidetto) della presentazione della domanda di mediazione incomba sulla parte che l’ha presentata, e non già sull’adito organismo di mediazione, come si evince in modo univoco dalla stessa formulazione della norma, che collega l’effetto interruttivo della prescrizione o impeditivo della decadenza al momento della comunicazione alle altre parti della domanda di mediazione.

Obbligo di indicare i motivi di impugnativa in mediazione

Quanto all’obbligo di indicare, a pena di improcedibilità, tutti i vizi e le motivazioni e le domande che saranno poi oggetto dell’azione giudiziaria, il tribunale ricorda che ai sensi dell’art. 4, comma 2 del d.lgs. 28/2010: “L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa” e deve avere gli stessi elementi (parti, oggetto e ragioni) riproposti in sede processuale (persone, petitum e causa petendi dell’art. 125 c.p.c.) ciò in quanto la mediazione è effettiva solo ove la parte chiamata viene messa in condizione di conoscere tutte le questioni costitutive della pretesa dell’altra parte. L’istanza perciò deve essere completa, così da rendere possibile il raggiungimento di un accordo che risolva la materia del contendere evitando un procedimento giudiziale.

“Una domanda di mediazione generica sotto il profilo del petitum o della causa petendi, non può considerarsi validamente espletata e comporta l’improcedibilità della domanda” (nota 1).

Nella specie, invero, parte attrice ha avanzato istanza di mediazione dalla quale si evince soltanto l’oggetto della domanda, ossia l’impugnativa della delibera del 17.12.2021 con particolare riguardo ai capi 2 e 3 all’ordine del giorno senza alcuna indicazione dei motivi di tale impugnazione.

Orbene, precisa il giudice, se è vero che per la mediazione ante causam è sempre possibile sanare l’improcedibilità, potendo il giudice demandare un nuovo esperimento della mediazione e, solo in caso di mancato (valido) esperimento di tale nuova mediazione, pronunciare l’improcedibilità della domanda, è anche vero che nel caso di impugnazione di delibera condominiale sussiste un termine di decadenza che viene interrotto  dalla “comunicazione” (che può essere fatta sia dall’organismo di mediazione che direttamente dall’istante) della istanza di mediazione alla controparte una sola volta e che inizia a decorrere nuovamente dal deposito del verbale conclusivo della mediazione.

Tale effetto interruttivo, però, può essere riconosciuto solo ad una procedura validamente espletata ed in relazione all’istanza comunicata che sia simmetrica alla futura domanda giudiziale, tenuto conto della natura deflattiva dell’istituto della mediazione, volto ad instaurare subito, già dinanzi al mediatore e prima del processo, un effettivo contraddittorio sulle questioni che saranno oggetto del futuro ed eventuale giudizio di merito. Ed è sempre in virtù della fine della procedura che il legislatore ricollega, per una sola volta, alla mediazione l’interruzione delle decadenze.

Diversamente, consentire alla parte di avvalersi del beneficio dell’impedimento delle decadenze con la mera presentazione di una “istanza” che non presenti i requisiti sopra indicati, significherebbe svilire l’istituto della mediazione ad un mero adempimento burocratico, in contrasto con la ratio ad esso sotteso, ed incentivare il suo uso meramente dilatorio, a beneficio di una sola parte.

Nel caso di specie l’istanza di mediazione versata in atti si presenta del tutto generica, non contiene alcun riferimento alle singole delibere impugnate ed ai vizi ad esse imputati; la domanda giudiziale, invece, contiene l’impugnativa di più deliberati (si tratta, infatti, di più delibere assunte su diversi ordini del giorno della stessa seduta) e l’esposizione, per ciascuna di essi, dei singoli vizi denunciati (contemplando, peraltro, in alcuni casi, anche censure che non si sostanziano, strictu sensu, in vizi di legittimità delle delibere).

Mancando la necessaria simmetria tra l’istanza di mediazione e la domanda giudiziale in concreto formulata, la mediazione non può ritenersi validamente svolta e, quindi, non impedita la decadenza dell’impugnazione ex art. 1137 c.c. (per cui sarebbe risultato inutile demandare alle parti una nuova mediazione che mai avrebbe potuto sanare la decadenza nella quale è incorsa la parte attrice).

Infatti, nel caso sottoposto all’esame del tribunale “non può parlarsi di parziale difformità, di non perfetta coincidenza di petitum e causa petendi ovvero di generica indicazione dei motivi giacché essi oggettivamente non risultano in alcun modo richiamati nell’istanza di mediazione”.

Conseguentemente, il tribunale napoletano dichiara improcedibile la domanda e inammissibile l’impugnazione per intervenuta decadenza.