liberatoria condominiale

Liberatoria condominiale Liberatoria condominiale: cos'è, a cosa serve, qual è la normativa di riferimento, che valore ha e fac-simile in bianco

Liberatoria condominiale: cos’è

La liberatoria condominiale è un documento rilasciato dall’amministratore di condominio che attesta l’assenza di debiti da parte di un’unità immobiliare nei confronti del condominio. Questo certificato è particolarmente utile in caso di compravendita di un immobile, poiché fornisce garanzia all’acquirente sulla regolarità dei pagamenti delle spese condominiali da parte del venditore.

Normativa di riferimento

La liberatoria condominiale trova fondamento nelle seguenti normative:

Art. 63 disp. att. c.c.: stabilisce che chi subentra in un immobile è obbligato in solido con il venditore al pagamento delle spese condominiali relative all’anno in corso e a quello precedente;

Art. 1130 c.c.: disciplina i doveri dell’amministratore di condominio, tra cui la gestione delle spese e la trasparenza nei confronti dei condomini;

Riforma del condominio (L. 220/2012): ha introdotto maggiori garanzie nella gestione economica del condominio, rendendo più chiara la responsabilità dei pagamenti.

A cosa serve

La liberatoria condominiale serve principalmente a certificare che l’immobile in vendita non ha pendenze economiche nei confronti del condominio, quali:

spese condominiali ordinarie e straordinarie;

eventuali rate di lavori di manutenzione già approvati;

quote relative a fondi cassa o altre spese deliberate dall’assemblea.

L’acquirente ha infatti diritto a sapere se esistono debiti condominiali prima di procedere all’acquisto, poiché in caso contrario potrebbe ritrovarsi a dover rispondere delle morosità del venditore, come previsto dall’art. 63 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile.

È obbligatoria la liberatoria condominiale?

La legge non impone l’obbligo di allegare la liberatoria condominiale all’atto di compravendita, ma nella pratica essa è fortemente consigliata per evitare problemi futuri. Alcuni notai potrebbero richiederla per garantire una maggiore trasparenza tra le parti.

In sua assenza, l’amministratore può comunque essere chiamato a fornire informazioni sullo stato dei pagamenti, su richiesta del venditore o del potenziale acquirente.

Che valore ha la liberatoria?

La liberatoria condominiale, emessa dall’amministratore, attesta l’estinzione di un debito condominiale, impedendo successive contestazioni sul mancato pagamento. Tuttavia, tale documento è rilasciato “salvo conguaglio”, il che significa che eventuali differenze emerse dal bilancio annuale, come eccedenze o somme dovute, possono essere richieste successivamente. La liberatoria si limita quindi alle somme specificate, non escludendo ulteriori crediti futuri.

Modello di liberatoria condominiale

Ecco un fac-simile di liberatoria condominiale:

LIBERATORIA CONDOMINIALE

Oggetto: Attestazione dello stato dei pagamenti condominiali

Il sottoscritto [Nome Amministratore], nato a [Luogo e data di nascita], in qualità di amministratore pro-tempore del Condominio [Nome Condominio], sito in [Indirizzo], dichiara che:

L’unità immobiliare situata in [Indirizzo dell’immobile], identificata catastalmente come [Dati catastali], di proprietà del Sig./Sig.ra [Nome Proprietario], risulta in regola con il pagamento delle spese condominiali fino alla data odierna.

Pertanto, alla data del [Data di emissione], non risultano pendenze economiche o morosità condominiali a carico dell’immobile sopra indicato.

La presente liberatoria viene rilasciata su richiesta del proprietario ai fini della compravendita dell’immobile e per gli usi consentiti dalla legge.

Luogo e Data: [Luogo, Data]

Firma: [Nome Amministratore]

 

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guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza per l’incidente nel viale del condominio Aggravante incidente stradale guida in stato di ebbrezza: applicabile anche se il teatro del sinistro è un vialetto condominiale

Guida in stato di ebbrezza:  aggravante confermata

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10000/2025 ha riconosciuto l’aggravante di aver cagionato un incidente stradale anche il fatto si è verificato in  un’area privata. Tale aggravante, relativa al reato di guida in stato di ebbrezza è stata riconosciuta quindi anche se il sinistro è avvenuto in un vialetto condominiale. La decisione conferma in questo modo l’applicabilità del Codice della Strada anche in aree private destinate all’uso pubblico, al fine di tutelare la sicurezza della circolazione e la salute dei cittadini.

Sinistro nel vialetto condominiale

Un giovane risulta positivo all’etilometro, dopo aver perso il controllo del veicolo mentre imboccava un vialetto pedonale in un parcheggio condominiale. Lo stesso ha urtato un’auto in sosta, un lampione e poi le mura esterne di un edificio condominiale. L’imputato ha quindi contestato l’aggravante, sostenendo che l’incidente era avvenuto in un’area privata e delimitata, non accessibile al pubblico.

Aggravante incidente stradale: rileva l’uso pubblico

La Cassazione però respinge la tesi della difesa, affermando che l’area condominiale era liberamente accessibile, come accertato dai verbali di polizia. Ha ribadito inoltre che le norme del Codice della Strada si applicano in qualsiasi contesto di uso pubblico della viabilità, compresi i vialetti condominiali aperti al transito di veicoli motorizzati. La Corte ha quindi stabilito che l’aggravante per incidente stradale si applica anche in aree private, purché destinate alla circolazione di un numero indeterminato di veicoli e persone. Non è necessario che siano coinvolti terzi o altri veicoli, ma è sufficiente che l’evento interrompa la normale circolazione e crei pericolo per la collettività.

Aggravante incidente stradale e danneggiamenti

La Cassazione del resto rileva come i giudici di merito abbiano confermato l’illecita condotta di guida in stato di ebbrezza, riscontrata visivamente dagli agenti di polizia e confermata dall’etilometro, che ha rilevato un tasso alcolemico elevato (2,16-2,04 g/l). L’imputato, proprio perché in tali condizioni, ha danneggiato due auto in sosta, un lampione e un muro condominiale.

Il ricorso pertanto è inammissibile e l’imputato deve essere condannato  al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro a favore della cassa delle ammende.

 

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revoca amministratore di condominio

Revoca amministratore di condominio Revoca amministratore di condominio: normativa di riferimento, tipologie, procedura e giurisprudenza di rilievo

Revoca amministratore di condominio: in quali casi

La revoca dell’amministratore di condominio può essere avvenire prima della scadenza naturale del suo mandato (un anno, rinnovabile automaticamente) nei seguenti casi:

  • Revoca assembleare: su decisione dei condomini, anche senza giusta causa, fatto salvo il diritto al risarcimento del danno;
  • Revoca giudiziaria: su decisione del tribunale in caso di gravi irregolarità nella gestione.

La revoca è disciplinata dall’art. 1129 del Codice Civile, il quale prevede specifiche ipotesi di revoca d’ufficio.

Normativa di riferimento: art. 1129 c.c.

L’art. 1129 c.c., riformato dalla Legge 220/2012, stabilisce che:

  • L’assemblea può revocare l’amministratore in qualsiasi momento.
  • Il tribunale può revocarlo per gravi irregolarità su ricorso di ogni condomino.
  • L’amministratore è obbligato a riferire ai condomini eventuali conflitti di interesse.

Tipologie di revoca amministratore condominio

L’amministratore può essere revocato per volontà dell’organo assembleare o per disposizione del giudice nei casi più gravi.

  1. Revoca assembleare

L’assemblea condominiale può revocare l’amministratore con o senza motivo con la stessa maggioranza richiesta per la sua nomina (maggioranza degli intervenuti e almeno 500 millesimi – comma 2 articolo 1136 c.c.) 

  1. Revoca giudiziaria

Se l’amministratore commette gravi irregolarità, ogni condomino può rivolgersi al tribunale per chiederne la revoca. Le principali cause sono:

  • Mancata presentazione del rendiconto annuale;
  • Omissione della convocazione dell’assemblea;
  • Irregolare gestione delle finanze condominiali;
  • Violazione delle norme in materia di trasparenza e conflitto di interessi.

La revoca giudiziaria comporta l’inibizione alla nomina dello stesso amministratore.

Procedura di revoca amministratore condominio

  1. Convocazione dellassemblea con specifico ordine del giorno.
  2. Votazione della revoca con la maggioranza prevista dalla legge.
  3. Nomina del nuovo amministratore (opzionale, ma consigliata per garantire la continuità gestionale).
  4. In caso di revoca giudiziaria, presentazione del ricorso al tribunale competente.

Giurisprudenza di rilievo

Sono molte le sentenze di merito e di legittimità che si cono occupate della revoca dell’amministratore condominiale. Vediamo le più recenti e di rilievo.

Cassazione n. 3198/2023: il decreto di revoca dell’amministratore di condominio, emesso dal tribunale ai sensi degli artt. 1129 c.c. e 64 disp. att. c.c., è un provvedimento di volontaria giurisdizione, volto a sostituire la volontà assembleare per garantire una gestione corretta del condominio nei casi di grave compromissione. La revoca dell’amministratore è normalmente di competenza dell’assemblea, mentre quella disposta dal giudice ha natura sanzionatoria, con il singolo condomino che può solo attivare il procedimento. Pur incidendo sul rapporto di mandato, il decreto non ha carattere decisorio e non impedisce un’eventuale tutela giurisdizionale in un giudizio ordinario.

Corte dAppello di Napoli sentenza 24 giugno 2022: La conferma dell’amministratore da parte dell’assemblea, mentre è in corso un procedimento di revoca giudiziale avviato da singoli condòmini, non elimina né sana le irregolarità contestate.

Cassazione n. 7874/2021: Se l’assemblea revoca l’amministratore di condominio prima della scadenza del mandato, questi ha diritto al risarcimento dei danni, oltre al pagamento di eventuali crediti, ai sensi dell’art. 1725, comma 1, c.c. Tuttavia, il risarcimento non è dovuto se la revoca avviene per giusta causa, che può essere individuata tra i motivi che giustificano la revoca giudiziale.

 

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animali in condominio

Animali in condominio: nullo il regolamento che li vieta Animali in condominio: è nulla la clausola del regolamento contrattuale che ne vieta la detenzione ai condomini

Clausola che vieta animali in condominio

Per il Tribunale di Cagliari è nulla la clausola del regolamento condominiale di natura contrattuale che vieta la detenzione di animali in condominio. La sentenza n. 134/2025, pubblicata il 28 gennaio, ha deciso in questo senso perché ha riconosciuto l’importanza del rapporto affettivo tra uomo e animale sancita indirettamente dal comma 5 dell’articolo 1138 del codice civile, ai sensi del quale “Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici.”

Animali in condominio vietati dal regolamento

La sentenza pone fine a un vicenda giudiziaria intrapresa da un condomino nei confronti di tutti gli altri condomini, perché il regolamento contrattuale del condominio vietava il possesso di animali domestici. Occorre tuttavia considerare che l’evoluzione normativa ha modificato la considerazione giuridica degli animali. Il Codice civile, all’articolo 1138, stabilisce infatti che il regolamento condominiale non può vietare la detenzione di animali domestici. Questo principio riconosce quindi la convivenza con un animale come un diritto fondamentale.

Regolamenti invalidi se vietano gli animali  in condominio

Il tribunale decide quindi di accogliere la domanda del singolo condomino, dichiarando nulla la clausola del regolamento contrattuale perché in contrasto con l’articolo 1138 del Codice civile, norma di ordine pubblico. La coscienza sociale considera gli animali domestici parte integrante della vita familiare. La giurisprudenza ha quindi confermato che le disposizioni condominiali devono garantire la tutela del legame affettivo tra individuo e animale.

La decisione ha stabilito inoltre che tutti i regolamenti condominiali devono rispettare la legge. Qualsiasi disposizione contraria a norme di ordine pubblico perde efficacia. Secondo l’articolo 155 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile, le norme regolamentari non possono derogare alle leggi. Di conseguenza, anche i regolamenti contrattuali risultano invalidi se impongono divieti contrari alla normativa vigente. 

Evoluzione normativa sugli animali domestici

La sentenza ricorda che negli ultimi anni, la legislazione ha rafforzato la tutela degli animali. La legge n. 281/1991 ha introdotto la protezione degli animali da affezione. La legge n. 189/2004 ha punito il maltrattamento e l’uccisione degli animali. La legge n. 120/2010 ha imposto l’obbligo di soccorrere animali feriti. A livello europeo, la Convenzione per la protezione degli animali da compagnia e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea impongono agli Stati membri di considerare il benessere degli animali.

L’articolo 1138 del Codice civile pertanto non fa che riflettere questa evoluzione. Esso favorisce la convivenza tra uomini e animali domestici nei condomìni. I regolamenti infatti non possono contenere divieti che impediscano questa convivenza. Il rapporto affettivo tra uomo e animale riceve tutela giuridica.

Orientamenti giurisprudenziali contrastanti

Il legislatore ad oggi non ha ancora chiarito se il divieto di detenere animali domestici si applichi solo ai regolamenti assembleari o anche a quelli contrattuali. Questa lacuna ha generato interpretazioni divergenti. Alcuni tribunali ritengono infatti che la norma riguardi solo i regolamenti approvati dall’assemblea. In questi casi quindi il singolo condomino ha il diritto a possedere animali, senza subire limitazioni imposte dalla maggioranza.

Altri orientamenti sostengono invece che il principio di tutela degli animali si estenda a tutti i regolamenti, siano essi di natura assembleare che contrattuale. La giurisprudenza più recente rafforza il diritto a convivere con gli animali domestici e considera nulle le clausole che impongono divieti, perché violano principi di ordine pubblico e diritti fondamentali dell’individuo.

Ne consegue, in conclusione che qualsiasi clausola regolamentare che imponga un simile divieto risulta nulla.

 

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cavedio

Il cavedio Cavedio: definizione, normativa di riferimento, natura condominiale, ripartizione delle spese e giurisprudenza

Cos’è il cavedio?

Il cavedio è uno spazio aperto interno a un edificio, spesso di forma quadrangolare o rettangolare, che ha la funzione di garantire l’illuminazione e la ventilazione naturale degli ambienti circostanti. Viene comunemente utilizzato negli edifici con più unità immobiliari, soprattutto nei centri storici, per migliorare il comfort abitativo.

Normativa di riferimento

La disciplina di questo spazio non è espressamente regolata nel Codice Civile, ma trova riferimento negli articoli che riguardano le parti comuni dell’edificio e la servitù di veduta:

  • 1117 c.c.: stabilisce che alcune parti dell’edificio sono comuni a tutti i condomini, a meno che non risulti diversamente dal titolo;
  • 840 c.c.: definisce l’estensione della proprietà del suolo, indicando che il proprietario può godere del sottosuolo e dello spazio sovrastante nei limiti previsti dalla legge;
  • 907 c.c.: disciplina le distanze legali per le aperture e le vedute, aspetto rilevante quando il cavedio confina con proprietà private.

Natura condominiale del cavedio

La giurisprudenza ha chiarito che il cavedio può essere considerato bene comune o di proprietà esclusiva a seconda delle sue caratteristiche:

  • se serve più unità immobiliari: viene considerato parte comune dell’edificio, rientrando nella disciplina dell’art. 1117 c.c.;
  • se serve esclusivamente un’unità immobiliare: viene considerato pertinenza del singolo proprietario.

Ripartizione spese di manutenzione del cavedio

Le spese per la manutenzione di questo spazio devono essere suddivise in base alla sua natura.

  • Se è condominiale: i costi di pulizia, manutenzione e riparazione vengono suddivisi tra tutti i condomini secondo i millesimi di proprietà.
  • Se è di proprietà esclusiva: il titolare dell’unità immobiliare cui esso appartiene è responsabile delle spese.
  • Se poi ha una funzione mista (ad esempio, permette il passaggio di impianti comuni ma è utilizzato da un singolo proprietario), la ripartizione delle spese dipende dall’effettivo utilizzo e dalla destinazione d’uso.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha fornito chiarimenti in merito alla natura condominiale del cavedio e alla ripartizione delle spese:

  • Cassazione civile n. 4865/2023: Il cavedio, o pozzo luce, è un piccolo cortile condominiale che fornisce aria e luce a locali secondari. La sua proprietà è presunta comune, salvo prova contraria di proprietà esclusiva tramite titolo anteriore o usucapione.
  • Cassazione n. 16800/2023: L’uso del cavedio comune è regolato dall’articolo 1102 del Codice Civile: ogni condomino può utilizzarlo senza alterarne la funzione o impedire agli altri di farne uso. Installazioni come tubature o stendibiancheria sono legittime se necessarie e non modificano la natura del cavedio. Invece, strutture fisse che ne limitano l’uso comune sono vietate.
  • Cassazione n. 5358/2018: Un condomino non può usare il cavedio comune in modo esclusivo, alterandone la funzione e impedendo agli altri di usarlo. L’uso autonomo è lecito solo se non pregiudica gli altri. Il giudice può ordinare la rimozione di modifiche che rendono il cavedio accessorio esclusivo di un appartamento. Il diritto d’uso del singolo non giustifica alterazioni che limitano l’uso comune.
  • Cassazione n. 17556/2014: Il cavedio è considerato parte comune dell’edificio condominiale a causa della sua funzione primaria di fornire aria e luce a locali secondari come bagni e disimpegni. Questa natura condominiale deriva dalla presunzione di contitolarità necessaria tra tutti i condomini che beneficiano del cavedio, poiché la sua utilità per le parti comuni dell’edificio stabilisce una presunzione di proprietà condivisa. Questa presunzione è supportata dall’articolo 1117 del Codice Civile, che include i cortili tra le parti comuni.

 

decoro architettonico

Il decoro architettonico Decoro architettonico: definizione, normativa di riferimento, caratteristiche, possibili alterazioni e giurisprudenza di rilievo

Cos’è il decoro architettonico?

Il decoro architettonico è l’insieme delle linee estetiche e stilistiche che caratterizzano un edificio, conferendogli un aspetto armonico e uniforme. In ambito condominiale esso rappresenta un valore da tutelare, in quanto incide sull’armonia dell’edificio e sul valore economico delle singole unità immobiliari.

Normativa di riferimento

Il Codice Civile non fornisce una definizione specifica di decoro architettonico, ma la sua tutela emerge da diversi articoli:

  • 1120 c.c.: vieta le innovazioni che possano alterare il decoro architettonico dell’edificio;
  • 1122 c.c.: stabilisce che i condomini non possano compiere opere che danneggino il decoro architettonico;
  • 1102 c.c.: disciplina l’uso delle parti comuni, prevedendo che ogni condomino possa servirsi delle stesse, purché non ne alteri la destinazione o, secondo alcune pronunce dei giudici di merito e di legittimità, il decoro.

La giurisprudenza ha avuto un ruolo fondamentale nella definizione dei confini di questa tutela, stabilendo criteri e principi per valutare quando si verifichi un’alterazione dello stesso.

Caratteristiche del decoro architettonico

Le principali caratteristiche del decoro architettonico sono:

  1. uniformità stilistica: la facciata e le parti comuni devono mantenere un aspetto armonioso;
  2. coerenza estetica: qualsiasi intervento deve rispettare le linee originarie dell’edificio;
  3. impatto visivo: l’alterazione viene valutata in base all’impatto che una modifica ha sull’aspetto dell’edificio nel suo complesso.

Quando c’è alterazione del decoro architettonico?

L’alterazione si verifica quando un’opera o una modifica effettuata da un singolo condomino incide negativamente sull’armonia estetica dell’edificio. Alcuni esempi tipici includono:

  • la chiusura di balconi con infissi di colore o materiale difforme rispetto agli altri;
  • l’installazione di condizionatori o antenne in posizioni visibili e disarmoniche;
  • la modifica della facciata con verniciature o rivestimenti non coerenti con lo stile originale;
  • l’installazione di tende, infissi o inferriate in contrasto con le linee estetiche dell’edificio.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha emesso diverse sentenze in materia di decoro architettonico, chiarendo i criteri per determinare l’esistenza di un’alterazione:

Cassazione civile n. 851/2007: Il decoro architettonico di un edificio condominiale, tutelato dall’art. 1120 c.c., si riferisce all’estetica complessiva derivante dall’insieme delle linee e delle strutture che definiscono l’armonia e l’identità dello stabile. Pertanto, qualora interventi innovativi ne compromettano l’integrità, la tutela opera indipendentemente dalla loro visibilità o dal punto di osservazione, poiché mira a preservare le caratteristiche architettoniche unitarie dell’edificio, a prescindere da circostanze contingenti.

Cassazione civile n. 10350/2011:  Mentre l’aspetto architettonico, disciplinato dall’art. 1127 c.c in relazione al diritto di sopraelevazione dei condomini, implica una valutazione della compatibilità con lo stile dell’edificio (Cass., sez. 2, n. 1025/2004), il decoro, tutelato dall’art. 1120 c.c., si manifesta nell’armonia complessiva delle linee e delle strutture, garantendo un’estetica coerente e unitaria dell’immobile (Cass., sez. 2, n. 10350/2011).

Cassazione civile n. 27527/2005: il decoro architettonico di un edificio si riferisce alla sua estetica complessiva, determinata dall’insieme delle linee, delle strutture e degli elementi ornamentali che ne caratterizzano l’aspetto, conferendogli un’identità armonica e riconoscibile. Esso non si limita alla semplice bellezza dell’edificio, ma rappresenta un principio di coerenza stilistica che garantisce l’unitarietà visiva delle sue parti. Esso si manifesta nella fusione equilibrata degli elementi costruttivi e decorativi, che insieme definiscono la fisionomia dell’immobile. La sua tutela ha lo scopo di preservare questa armonia estetica nel tempo, evitando alterazioni che possano comprometterne l’integrità visiva e il valore sia architettonico che economico.

 

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sottobalcone o cielino

Sottobalcone o cielino: chi paga le spese? Sottobalcone o cielino: normativa di riferimento, criteri di ripartizione delle spese e giurisprudenza di rilievo

Cos’è il sottobalcone o cielino?

Il sottobalcone, noto anche come “cielino”, è la parte inferiore del balcone di un edificio che serve solitamente anche da copertura di quello sottostante. Questo elemento architettonico può avere una funzione decorativa, ma soprattutto strutturale, incidendo sulla sicurezza e sull’estetica dell’immobile.

Normativa di riferimento

La normativa italiana non disciplina espressamente il sottobalcone, ma il riferimento principale è rappresentato dagli articoli del Codice Civile relativi alla proprietà e alle parti comuni degli edifici in condominio.

In particolare, si applicano le seguenti norme:

  • 1117 c.c.: stabilisce quali sono le parti comuni dell’edificio;
  • 1125 c.c.: disciplina la ripartizione delle spese tra proprietario del piano superiore e quello del piano inferiore nel caso dei solai.

La giurisprudenza ha più volte precisato che i balconi aggettanti non costituiscono parti comuni dell’edificio, , ma elementi di proprietà esclusiva del titolare dell’appartamento cui afferiscono. Tuttavia, il sottobalcone può rientrare tra le parti comuni qualora abbia una funzione estetica rilevante per la facciata.

Ripartizione spese di manutenzione del sottobalcone

La ripartizione delle spese relative alla manutenzione del cielino dipende pertanto dalla sua funzione:

  1. Se il sottobalcone ha valore estetico per la facciata: le spese sono a carico del condominio.
  2. Se il sottobalcone è esclusivamente a servizio del proprietario del balcone sovrastante: le spese spettano a quest’ultimo.
  3. Se il deterioramento del sottobalcone compromette la sicurezza dell’edificio: le spese possono essere ripartite tra il singolo proprietario e il condominio in base alle specifiche responsabilità.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha spesso affrontato il tema del sottobalcone, chiarendo criteri di ripartizione delle spese:

Cassazione n. 7042/2020: la manutenzione dei balconi aggettanti di un edificio condominiale è a carico esclusivo del proprietario dell’unità immobiliare a cui il balcone è annesso. Questo perché i balconi aggettanti non svolgono una funzione strutturale per l’edificio né hanno una funzione comune, ma sono considerati un prolungamento dell’appartamento privato. Di conseguenza le spese per la pavimentazione, la soletta, l’intonaco, la tinteggiatura e la decorazione del soffitto del balcone spettano esclusivamente al proprietario dell’unità immobiliare cui il balcone appartiene.

Cassazione n. 5014/2018: In merito ai balconi aggettanti, che non svolgono alcuna funzione di sostegno o copertura ma rappresentano un semplice prolungamento dell’unità immobiliare di riferimento, è stato chiarito che, in caso di interventi di manutenzione, occorre distinguere tra la struttura portante – di proprietà esclusiva del titolare dell’appartamento – e il rivestimento, il quale, se ha una funzione estetica, rientra tra i beni comuni del condominio. Tra gli elementi decorativi considerati comuni, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, rientrano i frontalini (ossia la parte terminale della struttura armata del balcone, visibile a filo o in aggetto), il rivestimento della fronte della soletta (in marmo o intonaco), i cielini, le piantane, le fasce marcapiano, eventuali aggiunte sovrapposte con malta cementizia, nonché balaustre, viti in ottone, piombi, cimose, basamenti e pilastrini.

Tribunale di Novara sentenza 29 aprile 2010: Le spese relative ai sotto balconi devono essere sostenute da tutti i condomini, in quanto questi elementi, essendo visibili dall’esterno dell’edificio, svolgono una funzione decorativa ed estetica che contribuisce all’armonia e al decoro dell’intero fabbricato, qualificandoli come parte comune.

 

 

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frontalini dei balconi

Frontalini dei balconi: cosa sono e chi paga le spese Frontalini dei balconi: definizione, disciplina condominiale dei balconi e ripartizione delle spese di manutenzione

Cosa sono i frontalini dei balconi

I frontalini sono le parti frontali verticali dei balconi, visibili sulla facciata dell’edificio. Essi rivestono sia una funzione estetica, contribuendo al decoro architettonico dell’immobile, sia una funzione protettiva, preservando la struttura del balcone dagli agenti atmosferici.

I frontalini dei balconi rappresentano un elemento architettonico spesso al centro di discussioni condominiali riguardanti la ripartizione delle spese di manutenzione. Comprendere la loro funzione e la relativa disciplina giuridica è fondamentale per la loro corretta gestione.

Disciplina dei balconi in condominio

Nel contesto condominiale, è essenziale distinguere tra due tipologie di balconi:

  • Balconi incassati: sono quelli integrati nel corpo dell’edificio, senza sporgenze rispetto alla facciata. La loro struttura funge da copertura per il piano inferiore e da sostegno per quello superiore.
  • Balconi aggettanti: sono invece quelli sporgono rispetto alla facciata dell’edificio e non svolgono una funzione di copertura per i piani sottostanti.

Questa distinzione è cruciale poiché influisce sulla proprietà e sulla ripartizione delle spese di manutenzione dei frontali.

Frontalini dei balconi: ripartizione spese condominiali

La giurisprudenza ha più volte affrontato la questione della ripartizione delle spese per la manutenzione dei frontalini dei balconi. In particolare, la Corte di Cassazione ha stabilito che:

  • i balconi aggettanti sono considerati prolungamenti dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva. Di conseguenza, le spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei frontalini spettano al proprietario dell’appartamento;
  • se però i frontalini contribuiscono al decoro architettonico dell’edificio, le spese per la loro manutenzione possono essere ripartite tra tutti i condomini, in quanto rientrano tra le parti comuni.

Ad esempio, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6624/2012, ha affermato che “i balconi aggettanti, costituendo un “prolungamento” della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa; soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore si debbono considerare beni comuni a tutti, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole. (Cass. n. 14576 del 30/07/2004; Cass. n. 587 del 12.1.11; Cass. n. 15913 del 17/07/2007).”

La Cassazione n. 27413/2018 ha confermato il principio suddetto affermando che:“gli elementi decorativi del balcone di un edificio in condominio – come i cementi decorativi relativi ai frontali (ed ai parapetti) – svolgendo una funzione di tipo estetico rispetto all’intero edificio inserendosi nel suo prospetto, costituiscono, come tali, parti comuni ai sensi dell’art. 1117, n. 3, c.c., con la conseguenza che la spesa per la relativa riparazione ricade su tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno.”

 

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polizza condominio

Polizza condominio anche senza unanimità Polizza condominio: la Cassazione sostiene che l'assemblea ha la facoltà di stipulare una polizza assicurativa senza unanimità dei consensi

Polizza condominio: cosa dice la Cassazione

L’assemblea condominiale ha la facoltà di stipulare una polizza assicurativa per la tutela legale senza l’unanimità dei consensi. Ciò perché la spesa rientra tra i costi relativi alla gestione comune dell’edificio e deve essere ripartita tra tutti i condomini. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 4340/2025.

Il caso giuridico

Una condomina ha citato in giudizio il condominio per ottenere la dichiarazione di nullità o l’annullamento della delibera condominiale, con la quale veniva approvato l’addebito, nel bilancio condominiale, di un premio di € 1.688,91 per la stipula di una polizza assicurativa di tutela legale.
L’attrice sosteneva che tale spesa era lesiva del diritto individuale dei condomini, regolato dall’art. 1132 c.c., e deduceva che la delibera non rientrava nei poteri assembleari di cui all’art. 1135 c.c. Chiedeva, altresì, la condanna dell’indicato Condominio al risarcimento danni ex art. 96, co. 1 e 3, c.p.c.
Il giudice di pace adito respingeva la domanda che veniva rigettata anche in appello dal tribunale di Forlì, il quale richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11349/2022 e n. 23254/2021), sosteneva che l’assemblea condominiale, nei limiti dell’art. 1135 c.c., può validamente deliberare spese per coprire costi processuali inerenti le parti comuni, senza violare il diritto dei condomini dissenzienti.
La questione approdava quindi in Cassazione.

La decisione della Cassazione

Innanzi al Palazzaccio, la condomina si doleva che la delibera assembleare approvando la stipula di una polizza assicurativa di tutela legale, con addebito del premio a tutti i condomini, avesse violato li diritto dei dissenzienti previsto dall’art. 1132 c.c., che consente loro di estraniarsi dalle conseguenze delle liti deliberate dall’assemblea, eccedendo “i poteri dell’assemblea previsti dall’art. 1135 c.c., in quanto ha imposto un onere generalizzato anche sui condomini non partecipanti alle controversie, incidendo sui diritti individuali e determinando un aggravio economico ingiustificato”.

Per gli Ermellini, tuttavia, la donna ha torto. Richiamando l’orientamento univoco ormai espresso in più pronunce, la S.C. ha ribadito che “l’assemblea condominiale ha li potere di stipulare una polizza per la tutela legale nell’ambito della propria discrezionalità gestionale”.  Inoltre, “l’articolo 1132 del codice civile non può essere invocato per invalidare la stipula della polizza, poiché questa non impone ai condomini dissenzienti di contribuire alle spese processuali di una controversia specifica, ma ha una finalità più generale di tutela del condominio. Questa Corte ha sottolineato che le spese per la stipula della polizza devono essere ripartite tra tutti i condomini in base ai criteri stabiliti dall’articolo 1123 c.c., trattandosi di una spesa relativa alla gestione comune dell’edificio (cfr., per tutte, Cass. n. 23254/2021 e Cass.
п.11891/2024)”.
Il ricorso è quindi inammissibile.

Allegati

orari di silenzio

Orari di silenzio in condominio Orari di silenzio in condominio: cosa prevede la legge e i regolamenti condominiali,  le sanzioni applicabili e la giurisprudenza

Orari di silenzio in condominio: disciplina

Gli orari di silenzio in condominio rappresentano una delle principali cause di controversie tra vicini. Il rispetto della quiete è disciplinato principalmente dai regolamenti condominiali e, in loro assenza, trova fondamento nella normativa generale, in particolare nell’articolo 844 del Codice civile, che regola le immissioni moleste.

Nel tempo, la giurisprudenza ha chiarito i confini tra il diritto al riposo e la tollerabilità dei rumori, stabilendo importanti principi per la convivenza civile all’interno dei condomini. Vediamo quindi quali sono gli orari di silenzio, cosa prevedono i regolamenti condominiali, cosa dice la legge e cosa affermano le sentenze della Cassazione più recenti.

Quali sono gli orari di silenzio in condominio?

Gli orari di riposo non sono stabiliti da una normativa unica nazionale ma derivano:

  • Dai regolamenti condominiali.
  • Dai regolamenti comunali (ordinanze locali).
  • Dalla disciplina generale sulle immissioni sonore contenuta nell’ 844 c.c..

Orari di silenzio comunemente adottati nei regolamenti condominiali:

  • Mattina: dalle 13:00 alle 16:00 (fascia del riposo pomeridiano).
  • Sera: dalle 22:00 alle 08:00 (fascia del riposo notturno).

Questi orari possono variare in base al regolamento comunale o alle delibere dellassemblea condominiale, purché non ledano i diritti fondamentali dei condomini.

Cosa prevedono i regolamenti sugli orari di riposo

I regolamenti condominiali sono il principale strumento per disciplinare la convivenza tra vicini. Possono essere di due tipi:

  1. Regolamento contrattuale: approvato all’unanimità o inserito nell’atto di acquisto dell’immobile, ha valore vincolante per tutti i condomini.
  2. Regolamento assembleare: approvato con la maggioranza prevista dall’ 1136 c.c., può stabilire regole comportamentali come gli orari di riposo.

Cosa può vietare il regolamento condominiale?

  • Luso di elettrodomestici rumorosi (lavatrice, aspirapolvere) negli orari di riposo;
  • lavori di ristrutturazione in fasce orarie sensibili;
  • la musica ad alto volume e feste serali oltre una certa ora;
  • le attività rumorose nei giardini (taglio erba e siepi) o nei terrazzi durante il riposo pomeridiano.

Cosa prevede la legge: l’art. 844 c.c.

In assenza di regole specifiche nel regolamento condominiale, interviene l’art. 844 del Codice civile, che disciplina le immissioni di rumori, fumi, odori e vibrazioni tra fondi confinanti.

L’articolo stabilisce che:

  • le immissioni non devono superare la normale tollerabilità;
  • per valutare la tollerabilità, si tiene conto della situazione locale e delle condizioni ambientali.

Il concetto di normale tollerabilità” è relativo, e la sua valutazione spetta al giudice, che considera il contesto (es. centro città o zona residenziale).

Sanzioni per il mancato rispetto degli orari di silenzio

Il mancato rispetto degli orari di riposo può comportare:

  • Sanzioni pecuniarie fino a 200 euro (art. 70 disposizioni attuative c.c.), aumentabili fino a 800 euro per recidiva.
  • Azione civile per risarcimento danni (art. 2043 c.c.) se il disturbo ha causato danni alla salute o psicofisici.
  • Azione penale per disturbo della quiete pubblica (art. 659 c.p.), se il rumore disturba più persone o l’intero stabile.

Consigli pratici per la convivenza pacifica

  • Conoscere il regolamento condominiale: verificare sempre cosa prevedono le regole del condominio sugli orari di silenzio.
  • Comunicare prima di fare lavori: avvisare i vicini per tempo.
  • Mediazione: prima di procedere legalmente, tentare la via della conciliazione.
  • Limitare il rumore serale: ridurre il volume di TV, musica e conversazioni sul balcone dopo le 22.

Cosa dice la giurisprudenza sugli orari di silenzio

Negli anni, la Corte di Cassazione ha più volte chiarito l’applicazione dell’art. 844 c.c. in ambito condominiale. Ecco alcune sentenze rilevanti:

Limite di tollerabilità relativo

Cassazione n. 27036/2022: “il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (cd. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata.”

Disturbo delle occupazioni e del riposo

Cassazione n. 2071/2024: “in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995.”

Reato di disturbo: non serve la perizia o la consulenza

Cassazione 7717/2024: “perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio (Sez.1,n 45616 del 14/10/2013, Rv.257345 – 01); l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità.”

 

 

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