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Vincolo prezzo edilizia convenzionata Il vincolo del prezzo massimo di cessione di immobili in edilizia convenzionata è opponibile anche alle alienazioni successive alla prima?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In materia di edilizia residenziale pubblica, a seguito degli interventi legislativi di cui al D.L. 70/2011, art. 5, comma 3bis, introdotto in sede di conversione dalla L. 106/2011, e al D.L. 119/2018, art. 25undecies introdotto in sede di conversione dalla L. 136/2018, il vincolo del prezzo massimo di cessione degli immobili permane fino a quando lo stesso non venga eliminato con la procedura di affrancazione di cui alla L. 448/1998, art. 31, comma 49bis. Tale vincolo sussiste, in virtù della sostanziale equiparazione disposta dal L. 662/1996, art. 3, comma 63, e dalla L. 448/1998, art. 31, comma 46, sia per le convenzioni di cui all’art. 35 della L. 865/1971 (c.d. convenzioni PEEP) sia per quelle di cui alla L. 10/1977, artt. 7 e 8 (c.d. convenzioni Bucalossi), poi trasferiti, senza significative modifiche, nel D.P.R. 380/2001, artt. 17 e 18.

La procedura di affrancazione finalizzata all’eliminazione del vincolo di prezzo per i successivi acquirenti degli immobili di edilizia residenziale pubblica, che D.L. 119/2018, art. 25undecies, ha esteso in favore di tutti gli interessati, è consentita, secondo la previsione del comma 2 della citata disposizione, anche in relazione agli atti di cessione avvenuti anteriormente alla data di entrata in vigore del D.L. 70/2011, art. 5, comma 3bis, (13 luglio 2011); e la pendenza della procedura di rimozione dei vincoli determina la limitazione degli effetti dei relativi contratti di trasferimento degli immobili nei termini di cui alla L. 448/1998, art. 31, comma 49quater. – Cass. Sez. Un. 6 luglio 2022, n. 21348.

Nella pronuncia in esame le Sezioni Unite hanno sciolto un contrasto relativo all’efficacia del vincolo massimo di cessione nell’ambito delle varie convenzioni stipulate per l’edilizia popolare.

Secondo la decisione, la previsione di cui all’art. 35, comma 15 e 19, L. 865/1971, relativa al divieto temporaneo, a pena di nullità, di alienazione di alloggi costruiti su aree comprese nei piani per l’edilizia economica e popolare (P.E.E.P.) e cedute in proprietà ai comuni, costituisce una prescrizione di ordine pubblico generale dettata dal legislatore per prevenire l’eventualità che le agevolazioni concesse nel quadro di una politica abitativa di interesse sociale possano trasformarsi in un inammissibile strumento di speculazione; il comune – pertanto – non ha il potere di introdurre deroghe al divieto di alienazione, indipendentemente dalla qualità di contraente di una convenzione stipulata con la società cooperativa acquirente dell’area su cui è stato costruito l’alloggio, ovvero dalla circostanza che per la costruzione degli alloggi siano stati o meno concessi contributi pubblici. Si determina, quindi, con riferimento alle convezioni “P.E.E.P.” (in genere realizzato mediate la costituzione di un diritto di superficie), un vincolo sul prezzo che va oltre il primo rapporto di alienazione e che può essere opposto, efficacemente, anche nei confronti dei successivi acquirenti.

In tale prospettiva, il problema della vendita degli alloggi di edilizia convenzionata soggetti al vincolo sulla determinazione del prezzo viene risolto tenendo conto del carattere imperativo della relativa disciplina normativa, seppur mediata da convenzioni tra il Comune e il concessionario: con la conseguenza che l’eventuale violazione dei parametri legali sul prezzo di cessione cagiona la nullità della clausola ex art. 1418 c.c. e la sostituzione mediante inserzione automatica del corrispettivo imposto dalla legge (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.) . In altri termini, qualora il proprietario di un immobile costruito in regime di edilizia residenziale convenzionata sulla base di una convenzione con il comune abbia stipulato un contratto per la cessione dell’immobile a un prezzo superiore a quello massimo indicato nella convenzione, il predetto prezzo può essere adeguato, ex art. 1339 c.c., a quello stabilito nella convenzione stessa.

Per quanto precede, e posto che la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi in materia di edilizia convenzionata è determinata sulla base di un dato normativo – che ha, a sua volta, istituito la relativa convenzione con il Comune – sono considerati compresi nella previsione dell’art. 1339 c.c., alla quale si collega quella dell’art. 1419, comma 2, c.c., i casi di difformità di una clausola negoziale da una norma imperativa, la quale peraltro non importa la nullità del contratto quando tale clausola sia sostituita di diritto da norme imperative.

Con riferimento, invece, all’edilizia popolare viene precisato che in seguito all’entrata in vigore (in data 19 febbraio 1994) del nuovo testo dell’art. 20, L. 179/1992, come sostituito dall’art. 3, L. 85/1994, è stata – di fatto – liberalizzata la cessione degli alloggi di edilizia agevolata una volta decorso il termine di cinque anni dalla loro assegnazione o dal loro acquisto, a nulla rilevando che l’assegnazione dell’alloggio risalga a epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 179/1992, né la presenza, in provvedimenti amministrativi o negli strumenti convenzionali, di clausole contrastanti con tale regime di libera alienabilità post-quinquennale.

Conseguenza di tale situazione è che chi ha comprato un alloggio di edilizia residenziale convenzionata a prezzo di mercato ha diritto alla restituzione della differenza tra quanto versato e quanto invece dovuto in base ai vincoli stabiliti dalla convenzione originaria di assegnazione del diritto di superficie. Tale limitazione, nella più recente giurisprudenza, non riguarda solo il primo acquirente, in quanto il vincolo del prezzo massimo di cessione di immobili realizzati nell’ambito dell’edilizia economica e popolare ai sensi dell’art. 35, L. 865/1971 non spiega efficacia limitata al primo trasferimento, o in ordine a quello intervenuto tra il costruttore e il primo avente causa, ma segue l’immobile, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà.

Secondo una parte della giurisprudenza, per contro, le convenzioni poc’anzi richiamate erano disciplinate da diverse finalità e regole, nel senso che le convenzioni previste sia dall’art. 35, L. 865/1971, sia dagli artt. 7 e 8, L. 10/1977, pur concorrenza a costituire l’edilizia abitativa convenzionata, non sono soggette dalla medesima disciplina, posto che all’edilizia convenzionata disciplinata dalla prima delle menzionate norme va applicata la medesima disciplina speciale e non quella contenuta nell’art. 8, L. 10/1977. Per le prime, in particolare, il vincolo sul prezzo era opponibile anche ai successivi acquirenti, salva la procedura di affrancazione, mentre nella seconda tipologia di convenzioni tale limite sussisterebbe solo nei confronti della prima alienazione.

Nella pronuncia in esame, a chiarimento della complessa situazione creatasi in forza della stratificazione normativa, la Suprema Corte sancisce che alla base delle due tipologie di convenzioni vi è la necessità di offrire una abitazione a prezzi contenuti, evitando speculazioni nelle fasi successive. Per questo, pur se differentemente disciplinate, le due tipologie in commento seguono la medesima finalità sociale, con conseguente applicazione del limite del prezzo di vendita, da ritenersi valido e opponibile a tutte le alienazioni successive, salva la procedura di affrancazione.

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Clausola di garanzia autonoma consumatore È da considerarsi vessatoria la clausola di garanzia autonoma nel caso in cui il garante sia un consumatore? Quali sono le conseguenze in caso di risposta affermativa?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del codice del consumo trova applicazione anche ai contratti atipici e ciò, quanto alla previsione dell’art. 36, comma 1, anche là dove la clausola accertata come abusiva esprima il profilo di atipicità del contratto. In relazione al contratto atipico di garanzia a prima richiesta e senza eccezioni, l’accertamento dell’eventuale posizione di consumatore del garante deve avvenire con riferimento a esso e non sulla base del contratto garantito e nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del codice del consumo e in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t) e ciò, quanto alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti a eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito. In quest’ultimo caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, il contratto conserverà validità ai sensi del comma 1 del citato art. 36 e il garante potrà opporre dette eccezioni. – Cass. III, ord. 18 febbraio 2022, n. 5423.

La giurisprudenza interna ed eurounitaria si è chiesta, in modo particolare, se possa essere considerato consumatore un fideiussore non professionista che garantisca un’operazione negoziale (ad esempio un mutuo) strumentale alla professione del garantito.

La risposta è stata affermativa in quanto si è rilevato che la sola presenza della garanzia non è idonea a colmare l’asimmetria contrattuale sussistente tra il beneficiario del credito e il professionista (la banca) concedente, quest’ultimo titolare di un potere negoziale tale da poter predisporre unilateralmente le condizioni del contratto, sul cui contenuto la controparte non può incidere (Corte di Giustizia UE, VI, ord. 19 novembre 2015, C-74/15, Cass. 16 gennaio 2020, n. 742); Suprema Corte (18 febbraio 2022, n. 5423).

Il principio, con riferimento a una garanzia autonoma, è stato successivamente ribadito dalla Suprema Corte, nella decisione in rassegna. Nella circostanza la Cassazione ha altresì stabilito che nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del Codice del Consumo e in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t). Secondo la pronuncia tale disposizione si applica sia alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti a eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito. In tal caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, e quindi espunta, il contratto conserverà validità ai sensi dell’art. 36, co. 1, cod. cons. e il garante, conseguentemente, potrà opporre dette eccezioni.

Per la Suprema Corte, inoltre, l’eliminazione per abusività della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni” fa sì venir meno la funzione contrattuale che ne esprime l’atipicità, ma ciò non esclude la vincolatività del contratto di garanzia fra le parti. Il contratto, quindi, pur con diversa struttura, è comunque in grado di esprimere una funzione regolatrice dell’assetto di interessi, data la possibilità del garante di opporre le eccezioni relative al rapporto garantito che la clausola “a prima richiesta” impediva di opporre.

Questa soluzione, tuttavia, ha attirato diverse critiche. Si è infatti ben rilevato (Pagliantini) che con l’espunzione della clausola a prima richiesta viene travolta la stessa funzione contrattuale atipica dell’operazione: essa, infatti, non costituisce un contenuto secondario del contratto de quo, ma la causa dello stesso. La decisione ha, in sostanza, determinato un vero e proprio divorzio tra contratto autonomo di garanzia e consumatore.

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Giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c. Quali sono i criteri per il giudizio di meritevolezza ex art.1322, comma 2, c.c.? È immeritevole La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra valuta domestica e straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322 , comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.

La clausola inserita in un contratto di Leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone vari in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica e una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del D.Lgs. 58/1998. – Cass. Sez.Un. 23 febbraio 2023, n. 5657.

 

Le Sezioni Unite in questa recentissima sentenza, chiamate a valutare la validità di una clausola di indicizzazione in un contratto di leasing, hanno svolto delle rilevanti considerazioni con riferimento alla meritevolezza di un contratto e al potere giudiziale di intervento nel riequilibrare un negozio iniquo.

In primis hanno ricordato come la Cassazione in passato avesse già stabilito che il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., non coincide col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. In particolare, secondo la Relazione al Codice civile la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia (ex aliis, Sez.Un. 17 febbraio 2017, nn. 4222, 4223 e 4224; sez. III 28 aprile 2017, n. 10506). Il risultato del contratto può dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico (così la Relazione al Codice, §603, II capoverso). La pronuncia aggiunge che tale principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2, secondo periodo; 4, comma 2, e 41, comma 2, Cost.

Ne deriva, per la sentenza, che un contratto, dunque, non può dirsi “immeritevole” sol perché poco conveniente per una delle parti. L’ordinamento, infatti, garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero e informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici.

Da tali considerazioni, le Sezioni Unite rilevano che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.

 

Viene, quindi, illustrata dal massimo organo della nomofilachia, una interessante casistica giurisprudenziale su contratti o patti contrattuali ritenuti immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., che pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di:

 

  1. a) attribuire a una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra ( 22950/2015; 19559/2015);
  2. b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra ( 4222/2017; 3080/2013; 12454/2009; 1898/2000; 9975/1995);
  3. c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti ( 14343/2009).

 

In un altro passaggio della pronuncia, le Sezioni Unite hanno sostanzialmente escluso che nel giudizio di meritevolezza possa avere rilievo l’equilibrio economico delle prestazioni.

Il caso di specie riguardava un contratto di leasing che conteneva una clausola di indicizzazione dei canoni, ancorata a due parametri: il Libor CHF (trimestrale) e il cambio franchi svizzeri-euro.

La variazione dei suddetti parametri non incideva sul canone concordato dalle due società, ma determinavano i guadagni e le perdite di ciascuna delle due parti del contratto.

La Corte d’appello ha ritenuto che tale clausola di indicizzazione fosse “immeritevole” perché le contrapposte obbligazioni delle parti erano “squilibrate”; e le ha ritenute squilibrate perché la misura della variazione del saggio degli interessi non era simmetrica: una pari variazione del rapporto di cambio tra il franco svizzero e l’euro avrebbe infatti comportato variazioni diverse del saggio di interessi, a seconda che la variazione fosse stata a favore del concedente o dell’utilizzatore.

La Corte d’appello, quindi, secondo le Sezioni Unite ha mostrato implicitamente – ma inequivocamente – di ritenere che: a) il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni; b) ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità. Ambedue queste affermazioni sono tuttavia considerate erronee, per più ragioni.

Diverse le obiezioni delle Sezioni unite a queste conclusioni.

In primo luogo – si rileva – che il diritto dei contratti non impone l’assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali. Si ricorda, al riguardo, che la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti. L’ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se il soggetto abilitato all’esercizio del credito ha il dovere di rispettare le regole del gioco e comportarsi in buona fede, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, con ampiezza di motivazioni, sez. I 21 gennaio 2020, n. 1184; nello stesso senso, sez. III, ord. 14 ottobre 2021, n. 28022). Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà e autonomia compresa e accettata.

In secondo luogo, si afferma che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare, pertanto, non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. Segue quindi un passaggio di grande rilievo che sembra rispondere all’ampio potere di intervento giudiziale, a mezzo della clausola di buona fede, riconosciuto, invece dalla Corte costituzionale con sent. 27 gennaio 2023, n. 8. Per le Sezioni Unite, infatti: l’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, sez. VI, ord. 25 novembre 2021, n. 36740).

In terzo luogo, ancora, si obietta che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni (così la pronuncia) circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.

In quarto luogo si afferma che, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto oggetto del contenzioso, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza non basta di per sé a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c. Si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c.; oppure se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno; o ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della rescissione; nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno.

In conclusione, le Sezioni Unite in modo alquanto perentorio affermano che il giudizio di “immeritevolezza” di cui è menzione nell’art.1322 c.c. non può mai trasformarsi in una viamagica porta di Ishtar» nella sentenza) attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell’affare.

Ancora, in riferimento al giudizio di validità o meritevolezza di un patto contrattuale le Sezioni Unite chiariscono che non potrebbe mai limitarsi all’esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa, diversamente da quanto compiuto dalla Corte. In questo modo, per la pronuncia in esame, la decisione impugnata ha violato il millenario principio per cui soltanto cum nulla subest causa, constare non potest obligatio.

Si aggiunge che il giudizio de quo non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando – beninteso, iuxta alligata et probata partium – lo scopo perseguito dalle parti.

Passando al tema del derivato implicito nel leasing, il Supremo Collegio premette come in merito a questa tematica non possa configurarsi, nella sostanza, un contrasto di giurisprudenza di legittimità. Che la clausola indicizzata — la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme a un indice monetario (come nella specie) – non possa ritenersi uno strumento derivato, tantomeno implicito, è stato stabilito dalle decisioni 4569/2021 e 26358/2021 e viene ribadito anche nella pronuncia qui annotata. Difatti, la causa nulla ha in comune con quella dei derivati elencati dalla legge; difettano poi gli elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici. Rientrano nella categoria degli “strumenti finanziari collegati alla valuta” soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull’andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d’una prestazione rinviando a un indice monetario, comunque determinato (Cass. 19226/2009). Discostandosi dalla posizione di parte della dottrina sul punto, le Sezioni Unite ritengono che non meriti dignità concettuale il derivato implicito per esso intendendosi un patto dotato di autonomia causale ma aggiunto o accessorio ad altro negozio. Viene precisato dalle Sezioni Unite che il contratto di leasing ha ovviamente sempre una funzione (anche) di finanziamento, e un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta nazionale od in valuta estera. Un finanziamento in valuta estera ha lo scopo di evitare i rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale (e cioè il rischio della svalutazione per il creditore, e il rischio della rivalutazione per il debitore). Un finanziamento (non importa se in forma di mutuo o di leasing) il cui importo è parametrato a un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta.

Nella specie, si tratta di una normale clausola-valore, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore. In questa direzione: 1) l’aleatorietà del contratto non è che un effetto naturale della clausola-valore; 2) la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte e non incidessero sul valore della rata non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti sulla qualificazione del contratto.

Concludono le Sezioni Unite evidenziando che la clausola di rischio cambio non snatura la causa del contratto di leasing. Per qualificare un contratto il giudice deve avere riguardo all’intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti. Il contratto non muta natura e causa soltanto perché uno dei suoi elementi presenti un’occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico. Viene precisato che un contratto può dirsi atipico soltanto quando il rapporto per come disciplinato dalle parti diventi «del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall’adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici» (v. Cass. 3645/1969; Cass. 116/1974; Cass. 982/2002; Cass. 11096/2004). Da ultimo, viene rammentato che le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico. Ragion per cui la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti non è, di per sé, sufficiente a concludere che quel contratto, mercé la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa o natura e sia diventato atipico.

In conclusione, la clausola di indicizzazione quale quella in esame viene ritenuta lecita e non può costituire, da sola, la violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario. In ogni caso, l’eventuale violazione di questi doveri di correttezza nella fase delle trattative non potrebbe condurre a una dichiarazione di immeritevolezza del contratto. Al più, potrebbe configurarsi l’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure una responsabilità precontrattuale o ancora il risarcimento del danno. Il giudizio sulla meritevolezza serve difatti a stabilire se il contratto possa produrre effetti. Il contratto immeritevole è improduttivo di effetti mentre il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno. Viene conseguentemente cassata dalle Sezioni Unite la decisione impugnata con rinvio della causa alla Corte territoriale per provvedere, in diversa composizione, sulla base dei due principi di diritto sopra richiamati.

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Occupazione senza titolo e danno da perdita subita Nel caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il danno da perdita subita sofferto dal proprietario è in re ipsa o va provato, quale danno conseguenza?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta.

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato.

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto a un prezzo più conveniente di quello di mercato. – Cass. Sez. Un. 15 novembre 2022, nn. 33645 -33659.

L’occupazione illegittima di un immobile altrui, realizzata da un privato o da un PA, offre al proprietario leso una doppia tutela del diritto di proprietà, sia sul piano reale che su quello risarcitorio.

Con riferimento al primo viene in rilievo, evidentemente, l’azione di rivendicazione, coniata dall’art. 948 c.c., oltre alla tutela possessoria; con riferimento al secondo, invece, entra in funzione il meccanismo della responsabilità aquiliana, delineato dall’art. 2043 c.c.

Né è posto in dubbio che le due forme di tutela, pur differenziandosi, operino in sinergia assicurando al proprietario usurpato una protezione piena, integrata e completa.

Il dibattitto concerne, piuttosto, l’individuazione del danno ristorabile in sede risarcitoria per mezzo della tutela aquiliana.

Ci si domanda, infatti, quale sia il danno risarcibile in caso di occupazione abusiva dell’immobile altrui, interrogandosi non solo sull’esistenza ma anche sulla consistenza del pregiudizio subito dal proprietario occupato.

Per un primo filone ermeneutico il danno risarcibile sarebbe sempre e solo il danno-conseguenza patito dal proprietario, comprensivo sia della perdita subita che del mancato guadagno, a norma degli artt. 2056 e 1223 c.c. Spetterebbe, quindi, al proprietario-danneggiato-attore dimostrare l’entità del pregiudizio economico riportato in conseguenza della violazione del proprio diritto dominicale perché il giudice possa accogliere la domanda proposta e liquidare il risarcimento del danno dovuto dall’usurpatore-danneggiante.

Si tratta, in particolare, della tesi c.d. causale del danno che mantiene salda la dicotomia tipica della responsabilità aquiliana fondata sia sulla causalità materiale, da cui origina il danno-evento, che su quella giuridica, rivelatrice del danno-conseguenza.

Per una seconda opzione esegetica, invece, la violazione del diritto di proprietà porterebbe alla luce un danno in re ipsa, quantificabile a prescindere dalla prova concreta fornita dal proprietario danneggiato se solo si considera la natura fruttifera del bene in proprietà.

L’immobile oggetto del diritto dominicale è suscettibile, infatti, non solo di essere trasferito a titolo oneroso, quale estrinsecazione del potere di disposizione riconosciuto al proprietario, ma anche di essere concesso in godimento a terzi, attraverso un contratto di locazione o di comodato, rivelando il profilo dinamico del potere di godimento spettante altresì al proprietario, ai sensi dell’art. 832 c.c. Seguendo tale prospettiva, dunque, la sussistenza del diritto al risarcimento ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi, facendo riferimento al c.d. danno figurativo, con riguardo al valore locativo del cespite abusivamente occupato.

Nell’ipotesi di occupazione abusiva, in definitiva, il danno patito dal proprietario è presuntivamente correlato alla fruttuosità dell’immobile, ossia al canone di locazione di mercato di un immobile analogo.

Trattandosi di una presumptio hominis, iuris tantum, la quantificazione del danno parametrata al valore locativo ben può essere superata, peraltro, da allegazioni e dimostrazioni specifiche provenienti o dall’attore danneggiante, che fornisca la prova concreta di un maggior danno, o dal convenuto danneggiato, che dimostri come nel caso di specie il proprietario abbia subito un minor danno o non abbia patito alcun danno.

Si tratta, d’altronde, di un indirizzo avallato anche dal giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato 897/2017 e 3428/2019) che, con un analogo percorso motivazionale, raffronta il danno da occupazione sine titulo al valore locativo di mercato del bene, discorrendo apertamente di danno in re ipsa.

Questa seconda ricostruzione ammicca, invero, alla teoria normativa del danno, di origine tedesca, secondo cui l’oggetto del danno coincide con il contenuto del diritto violato: il danno è in re ipsa, quindi, perché immanente appunto alla violazione del diritto.

Tale tesi si espone, tuttavia, alla facile obiezione di estromettere del tutto il danno-conseguenza per arrestare l’illecito aquiliano al mero danno-evento, attribuendo all’obbligo risarcitorio una funzione sanzionatoria che normalmente le è priva sì da far temere per l’introduzione di un danno punitivo extra legem.

L’evidenza del contrasto interpretativo ha portato, da ultimo, il giudice della nomofilachia a rimettere la questione alle Sezioni Unite, per mezzo di ben due ordinanze interlocutorie (Cass., sez. III, 17 gennaio 2022, n. 1162 e Cass., sez. II, 8 febbraio 2022, n. 3946).

Le sentenze della Cass. Sez. Un. 15 novembre 2022, nn. 33645 e 33659 risolvono la questione con una motivazione ricca, completa e sistematica che ripercorre lucidamente le due tesi proposte e ricostruisce il quadro generale della tutela reale e aquiliana del diritto di proprietà.

Dopo aver distinto le regole di proprietà (property rules) dalle regole di responsabilità (liability rules), orientate le une al futuro e le altre al passato, la Corte ribadisce con forza che l’azione risarcitoria non può coincidere con quella di rivendicazione, dovendosi modellare sulla struttura propria della fattispecie descritta dall’art. 2043 c.c. In aggiunta alla violazione del diritto di proprietà – id est il danno-evento – deve verificarsi, dunque, l’esistenza dell’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile, ossia il danno-conseguenza.

Ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica, quale acquisizione risalente della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 576 e Cass. Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972), confermando che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria».

In tale prospettiva, la tesi del danno in re ipsa, una volta depurata dall’antesignano storico di matrice tedesca, non rinnega, invero, il danno-conseguenza, bensì si limita a introdurre un alleggerimento del carico probatorio gravante sul proprietario danneggiato per mezzo del meccanismo generale delle presunzioni tracciato dagli artt. 2727 e ss. c.c.

Si intende individuare, in tal modo, un punto di mediazione fra la teoria normativa del danno e quella della teoria causale, salvaguardando la distinzione tra la tutela reale e quella risarcitoria che l’ordinamento appresta al diritto di proprietà.

La teoria del danno in re ipsa non esautora, infatti, il requisito necessario del danno-conseguenza, accorciando la responsabilità civile al presupposto del solo danno-evento con l’esito di parificarla, in definitiva, alla tutela reale, ma si limita a intervenire sul piano probatorio-processuale, senza intaccare in alcun modo la struttura della fattispecie aquiliana.

In tal senso, allora, le Sezioni Unite suggeriscono di sostituire alla locuzione “danno in re ipsa” quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

Un’esplicita indicazione normativa in favore della liquidazione presuntiva del danno patrimoniale subito dal proprietario proviene, invero, dalla stessa legislazione in materia di espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. 327/2001). La determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite), costituisce, infatti, una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione.

Ebbene, qual è il danno presunto o il danno normale in caso di occupazione abusiva di un immobile altrui? Il valore locativo di mercato del bene. Tale parametro di liquidazione ben può essere allegato specificamente dal proprietario-danneggiato; del pari, in assenza di una prova precisa, assurge presuntivamente a metro di misura per il giudice, chiamato a svolgere una valutazione equitativa del danno-conseguenza a norma dell’art. 1226 c.c., fermo restando la possibilità per entrambe le parti del giudizio di fornire una prova concreta, volta a ottenere una liquidazione in melius o in peius del danno concretamente risarcibile nel caso di specie.

giurista risponde

Mantenimento figli e trattenute stipendio Ai fini della determinazione del reddito da lavoro dipendente funzionale alla determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, occorre prendere in considerazione ogni trattenuta effettuata dal datore di lavoro?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

In tema di assegno divorzile e di contributo al mantenimento del figlio, la determinazione del reddito da lavoro dipendente del soggetto a carico del quale sono richieste quelle prestazioni impone di tenere conto delle ritenute fiscali e contributive operategli in busta paga sulla retribuzione, mentre il rilievo attribuibile, per il medesimo fine, ad altre trattenute ivi eventualmente effettuategli dal datore di lavoro può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso. – Cass., sez. I, 3 marzo 2023, n. 6515.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di un genitore con una retribuzione netta di media di circa 1.500,00 mensili, gravata da pesanti oneri finanziari (in particolare, una cessione di Euro 397,00 e un prestito di Euro 347,00) che è stato condannato dal Tribunale al pagamento, a titolo di contributo per il mantenimento della prole, di Euro 300,00 per il figlio e di Euro 300,00 a titolo di assegno divorzile.

In sede di impugnazione, la Corte d’Appello ha rideterminato in Euro 250,00 sia l’assegno divorzile che il contributo in favore del figlio.

Avverso tale pronuncia la ricorrente ha adito i Giudici della Suprema Corte denunciando, per quanto qui di rilievo, la violazione e falsa applicazione della L. 898/1970, art. 5, comma 6 e dell’art. 316bis c.c. e della Costituzione, artt. 2 e 29.

In particolare, la censura muove dall’assunto che non ogni trattenuta che venga operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente debba essere presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito.

Si lamenta che la Corte territoriale avrebbe disposto la riduzione dell’assegno valorizzando, sic et simpliciter, in modo indiscriminato, gli oneri finanziari gravanti sullo stipendio di controparte, senza prendere in considerazione le ragioni poste a fondamento dei medesimi.

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato.

In particolare, ha affermato che non ogni trattenuta che viene operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente va presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito. La Corte opera una distinzione tra le ritenute fiscali e contributive, che certamente vanno prese in considerazione perché la loro applicazione da luogo alla determinazione del reddito disponibile da parte del soggetto, e le altre trattenute eventualmente operate dal datore di lavoro, le quali corrispondono, nella generalità dei casi, a titoli che, a differenza dei primi, non prescindono dalla volontà dell’obbligato e derivano, invece, da suoi atti di disposizione.

Secondo la Corte, il rilievo attribuibile a tali ritenute, in sede di determinazione della condizione economica del coniuge ai fini dell’assegno di separazione, può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso.

Nell’accogliere il ricorso, dunque, la Corte rammenta che sarebbe stato necessario, laddove la sentenza impugnata ha proceduto alla riduzione dell’entità dell’assegno, che la Corte avesse verificato da cosa fossero concretamente scaturite le altre trattenute operate in busta paga dal datore di lavoro, evidentemente derivanti, da atti di disposizione di quest’ultimo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 21 giugno 2012, n. 10380
giurista risponde

Sentenza divorzio effetti accordi a latere Gli accordi intervenuti a latere della separazione sono idonei a produrre effetti dopo la sentenza di divorzio?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Non è possibile postulare una generalizzata impossibilità, per tutti gli accordi intervenuti a latere del procedimento di separazione, di mantenere efficacia anche dopo la sentenza di divorzio, così negando ogni valore all’autonomia privata, con violazione dell’art. 1322 c.c. – Cass. III, 21 febbraio 2023 n. 5353.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di una donna che, a seguito del divorzio, ha notificato all’ormai ex marito, un precetto con il quale ha invitato quest’ultimo a pagare una somma ritenuta dovuta in forza di un accordo stipulato tra le parti a latere della pronuncia di separazione.

In particolare, le parti, dopo avere depositato ricorso per la separazione avevano stipulato un accordo, ad integrazione della domanda in punto di mantenimento della prole, mediante il quale il padre si impegnava alla corresponsione di una somma ulteriore.

L’opposizione proposta dal presunto debitore è stata accolta dal giudice di prime cure con decisione confermata anche in appello, sul rilievo che l’accordo intervenuto tra gli ex coniugi, “a latere” del procedimento di separazione consensuale dagli stessi incardinato, fosse stato superato dal divorzio giudiziale, avendo tale provvedimento rideterminato le condizioni economiche previste in sede di separazione.

Avverso tale pronuncia, la creditrice ha presentato ricorso in cassazione basato su due distinti motivi: con il primo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 1322 c.c. In particolare, è stato evidenziato che non fosse possibile “tout court” affermarsi, se non in violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1322 c.c. che le obbligazioni contemplate in tali tipi di accordi, si estinguano automaticamente al momento del divorzio.

Con il secondo motivo, invece, è stata denunciata la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. poiché, a dire della ricorrente, in applicazione del suddetto articolo, l’accordo doveva interpretarsi nel senso che “la durata dell’obbligazione era (ed è) stabilita per relationem, ossia in riferimento alla sussistenza dell’obbligo di mantenere i figli, a prescindere dal divorzio”.

A parere della ricorrente, infatti, dal momento che, nella specie, la lettera dell’accordo deponeva nel senso di collegare l’obbligo nascente dall’accordo al mantenimento della prole, esso era destinato a permanere anche nella sua natura “integrativa” rispetto a quanto previsto nel ricorso per la separazione consensuale dei coniugi, solo al venir meno di tale obbligo, prescindendo così dalle vicende relative alla cessazione degli effetti del loro mantenimento.

I giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso ma hanno deciso di correggere la motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c., ritenendo sussistere un vizio di motivazione su questione di diritto.

In particolare, la Corte ha affermato che la Corte d’Appello, negando a priori ogni valore all’autonomia privata, con violazione dell’art. 1322 così postulando una generalizzata impossibilità per tutti gli accordi intervenuti a latere del procedimento di separazione, di mantenere efficacia anche dopo la sentenza di divorzio, si è sottratta al dovere di esaminare il contenuto della pattuizione sottoposta al suo vaglio.

La Suprema Corte ritiene che siffatta affermazione si ponga in contrasto con il principio secondo cui tanto in caso di separazione consensuale che di divorzio congiunto “i coniugi possono concordare con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare”.

La Suprema Corte, tuttavia, esclude che tale rilievo possa giovare alla ricorrente, ritenendo i motivi di ricorso infondati. In particolare, la Corte specifica che la convenzione stipulata tra le parti nel caso di specie non sia idonea ad integrare un titolo esecutivo giudiziale, non rivestendo la forma dell’atto pubblico né della scrittura privata autenticata.

La Corte aggiunge, infine, che ove si fosse preteso, circostanza nemmeno invocata dalla ricorrente, di attribuire all’accordo efficacia “integrativa” del titolo giudiziale, sarebbe occorso che tale circostanza risultasse dal titolo stesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066
giurista risponde

Collocamento figli conviventi more uxorio Quali sono i presupposti per l’adozione dei provvedimenti di collocamento dei figli dei conviventi more uxorio e di assegnazione della casa familiare?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Il Giudice, ai sensi degli artt. 337bis c.c. e seguenti, a fronte dell’avvenuta cessazione della convivenza more uxorio ed in assenza di una volontà comune e concorde dei genitori, già conviventi di fatto, alla prosecuzione della convivenza ad altro titolo, è tenuto a pronunciarsi sul collocamento dei figli e sull’assegnazione della casa coniugale, non essendo necessario accertare “l’intollerabilità della convivenza”. – Cass., sez. I, 7 marzo 2023, n. 6810.

Lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 337bis, 337ter e seguenti, il genitore non collocatario delle figlie minori ha presentato ricorso avverso la pronuncia della Corte d’Appello con la quale è stato disposto il collocamento prevalente delle figlie presso la madre e l’assegnazione a suo favore della casa familiare.

In particolare, il ricorrente ha censurato la scelta della Corte d’Appello di accogliere la domanda di collocamento delle figlie presso la madre cui ha assegnato la casa familiare ritenendo che la decisione si sia fondata, erroneamente, sull’apodittica affermazione dell’esistenza di una intollerabilità della convivenza, senza considerare che anche se era venuto meno il progetto affettivo della coppia, il comune interesse per la crescita e l’educazione della prole era idoneo a giustificare la scelta del Tribunale, il quale aveva, invece, deciso di non pronunciarsi su tale domanda.

Secondo la Suprema Corte, il ricorso va respinto in quanto in parte inammissibile poiché afferente a circostanza non decisiva (intollerabilità della convivenza) ed in parte infondato.

La Suprema Corte premette che per la famiglia di fatto non trova applicazione l’art. 151, comma 1, c.c. laddove stabilisce che “la separazione può essere chiesta quando si verificano anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” perché nella convivenza di fatto more uxorio la scelta di coabitare è libera e non consegue ad un obbligo giuridico.

Ciò premesso, secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello avrebbe correttamente ritenuto che il Tribunale avesse omesso la doverosa pronuncia in merito al collocamento e all’assegnazione, ed avendo preso atto della volontà comune di non proseguire nel progetto di coppia, avrebbe correttamente statuito in merito all’assegnazione della casa familiare ed alla collocazione privilegiata del minore presso al madre.

La Corte, infine, specifica che la pronuncia sul collocamento dei minori e sull’assegnazione della casa coniugale prescinde dalla ricorrenza o meno di una intollerabilità della convivenza, essendo all’uopo sufficiente, per l’adozione dei provvedimenti in esame, l’avvenuta cessazione della convivenza more uxorio in assenza di una volontà comune e concorde dei genitori, già conviventi di fatto, alla prosecuzione della convivenza ad altro titolo.

 

giurista risponde

Copertura assicurativa per fatto del terzo La copertura assicurativa è esclusa se la responsabilità dell’assicurato sorge dal fatto del terzo ex art. 1228 cc.?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Un’interpretazione del contratto di assicurazione della responsabilità civile, in virtù della quale la copertura è esclusa se la responsabilità dell’assicurato dovesse sorgere dal fatto del terzo ex articolo 1228 c.c., non è coerente con lo scopo del contratto, a meno che quest’ultimo non contenga un’espressa clausola di esclusione della copertura in caso di responsabilità dell’assicurato “per fatto altrui” di cui all’art. 1228 c.c. – Cass., sez. III, 7 marzo 2023, n. 6727.

Nel 1997 la Banca Nazionale del Lavoro, dovendo consegnare valori alla Poste Italiane S.p.A. li affidava per il trasporto alla società X la quale aveva stipulato un’assicurazione contro i rischi derivanti dal trasporto con la società Y. La società X affidava il trasporto di un valore consistente di denaro alla società Z la quale, a sua volta, aveva stipulato un’assicurazione contro i rischi derivanti dal trasporto con la società G. ed aveva contestualmente affidato la gestione del trasporto alla società S. La società S. aveva stipulato contratto assicurativo contro i rischi derivanti dal trasporto con la stessa società G.

Il furgone con il quale la società S. stava effettuando il trasporto viene assaltato e rapinato a mano armata sulla autostrada Salerno-Reggio Calabria; in conseguenza, tutti i valori venivano trafugati.

Con il quesito di diritto si chiede alla Corte di Cassazione di intervenire in tema di assicurazione civile sulla distinzione tra assicurazione per conto proprio e per conto altrui.

La Corte di Appello aveva, infatti, ritenuto che la copertura della responsabilità civile derivante dall’attività del sub vettore era prevista dal contratto solo a favore del contraente e non a favore di eventuali altri terzi sub vettori.

I giudici di legittimità non condividono questo assunto che confonde l’attività dell’assicurato, potenzialmente fonte di danno a terzi e coperta dal contratto di assicurazione della responsabilità civile, con lo stabilire quali siano i soggetti che possono invocare la polizza direttamente nei confronti dell’assicuratore. La Corte di Cassazione, preliminarmente stabilisce se la polizza stipulata dal vettore a copertura della propria responsabilità, fosse limitata alla responsabilità diretta ex art. 1218 c.c. o coprisse anche quella indiretta ex art. 1228 c.c.

La Suprema Corte rammenta che l’assicurazione di responsabilità civile può essere stipulata per conto proprio o per conto altrui (art. 1891 c.c.).

L’assicurazione di responsabilità civile stipulata per conto proprio copre il rischio di impoverimento del contraente; quella per conto altrui copre il rischio di impoverimento di persone diverse dal contraente, a prescindere dal fatto che quest’ultimo debba rispondere del loro operato.

La distinzione tra assicurazione per conto proprio e assicurazione per conto altrui si distingue fermamente dalla distinzione tra assicurazione della responsabilità civile per fatto proprio e assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui.

Nel primo caso la distinzione si fonda sulla sussistenza o meno, in capo al medesimo soggetto, della qualità di contraente o di assicurato. Si avrà assicurazione per conto altrui ex art. 1891 c.c. quando il contraente non è il titolare dell’interesse esposto al rischio ai sensi dell’art. 1904 c.c. Diversamente si avrà assicurazione per conto proprio quando il contraente della polizza è altresì titolare dell’interesse assicurato.

In caso di assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui, invece, la distinzione si fonda sul titolo della responsabilità dedotta ad oggetto del contratto.

Pertanto, nel caso di assicurazione per responsabilità civile per fatto proprio, l’assicuratore copre il rischio di impoverimento derivante da una condotta tenuta personalmente dall’assicurato; nel caso di assicurazione per responsabilità civile per fatto altrui, l’assicuratore copre il rischio di impoverimento dell’assicurato derivante da fatti commessi da persone del cui operato quello debba rispondere.

L’assicurazione per responsabilità civile si dirà per conto proprio o altrui a seconda di quale sia l’interesse assicurato; allo stesso modo, si dirà per fatto proprio o per fatto altrui a seconda di quale sia il rischio assicurato. In virtù della distinzione strutturale tra i due tipi, le stesse possono cumularsi.

Si potrà quindi stipulare: una assicurazione della responsabilità propria sia per fatto proprio che per fatto altrui che una assicurazione della responsabilità altrui sia per il fatto dell’assicurato che per il fatto di persone del cui operato l’assicurato debba rispondere.

Il vettore, pertanto, potrebbe teoricamente assicurare: la responsabilità propria, sia per fatto proprio che per fatto dipendente da colpa dei dipendenti o degli incaricati compresi i sub vettori; che la responsabilità civile dei sub vettori, configurandosi un’assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui ex art. 1891 c.c.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 21 novembre 2019, n. 30314; Cass., sez. III, 5 giugno 2020, n. 10825
giurista risponde

Marchi, segni distintivi e responsabilità del fornitore È conforme all’art. 3, comma 1, direttiva 85/374/CEE l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, soltanto perché quest'ultimo abbia una denominazione, marchio o segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Va rimessa alla Corte di giustizia la questione se sia conforme all’art. 1, comma 1, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore. – Cass., sez. III, ord. 6 marzo 2023, n. 6568.

Nel caso di specie il ricorrente conveniva in giudizio la X S.p.A. quale venditrice e la Y S.p.A. quale produttrice della propria auto, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in un sinistro automobilistico in cui non aveva funzionato l’air-bag della vettura.

La Y S.p.A., costituitasi in giudizio, resisteva negando di essere la produttrice, qualificando Y1 S.p.A., appartenente al suo stesso gruppo industriale, come tale. Eccepiva di non essere responsabile del difetto del prodotto lamentato, in quanto il fornitore non ne risponde se il produttore è individuato e comunque ne risulta comunicata l’identità al consumatore, come avvenuto nel caso di specie.

Il Tribunale accoglieva la domanda attorea dichiarando la responsabilità extracontrattuale della convenuta per difetto di fabbricazione dell’air-bag.

La società presenta ricorso e chiede, se necessario, il rinvio pregiudiziale alla CGUE.

Il nucleo della questione da dirimere è se ritenere sussistente la responsabilità della società Y S.p.A. per il suo trovarsi in una posizione equiparata a quella del produttore non evocato.

Il ricorrente richiama la nozione di “produttore” ai sensi dell’art. 3, D.P.R. 224/1988 quale “fabbricante del prodotto finito o di una sua componente e il produttore della materia prima” con l’estensione per cui “si considera produttore anche chi si presenti come tale apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione”. La ratio dell’estensione della responsabilità va rinvenuta nei “considerando” della Direttiva secondo cui “ai fini della protezione del consumatore è necessario considerare responsabili tutti i partecipanti al processo produttivo” se il prodotto o parte di esso è difettoso e quindi anche di chi “si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o altro segno distintivo o fornisca un prodotto il cui produttore non possa essere identificato”.

La logica è quella di sanzionare, con l’estensione della responsabilità, un preciso contegno commissivo, e non puramente omissivo del fornitore che aggiunga per sue ragioni (pubblicitarie, commerciali o di altro tipo) al marchio di fabbrica il marchio proprio, così impedendo al consumatore di distinguere con certezza il produttore dando luogo ad un “comportamento confusorio del fornitore” che se ne avvantaggia e che pertanto del marchio deve ricavare responsabilità come quella del produttore per aver indotto in confusione anche il consumatore.

La Direttiva specifica che quando non può essere individuato il produttore del prodotto si considera tale il fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto.

Nel caso in esame, però, la Y S.p.A., secondo i giudici di primo grado verrebbe a condividere la qualità di produttrice di Y1 S.p.A. per aver apposto il proprio nome sul prodotto.

Va chiarito, allora, cosa debba intendersi per apposizione del nome ovvero se l’apposizione debba essere soltanto una materiale impressione dell’elemento distintivo sul prodotto o se l’apposizione sia lato sensu e dunque includa pure la presenza dell’elemento distintivo rinvenibile sul prodotto anche nei dati identificativi del soggetto che in tal modo si presenta come produttore.

La ricorrente, sulla base di un precedente giurisprudenziale argomenta sul principio per cui il distributore o l’importatore rispondono del danno causato dal vizio costruttivo del prodotto, se abbiano un marchio o una ragione sociale coincidenti in tutto od in larga parte con quelli del produttore, e sotto tali segni distintivi abbiano commercializzato il prodotto.

Questo indirizzo si fonda in termini oggettivi sulla coincidenza del marchio o della ragione sociale del soggetto fornitore che così viene equiparato al produttore ai fini della condivisione della responsabilità verso il consumatore.

Ma nel caso di specie, la Y S.p.A. e la Y1 S.p.A., appartenenti al medesimo gruppo industriale, condividono nella loro denominazione l’elemento “Y”, senza che la prima si sia attivata per apporre sul prodotto un elemento per creare confusione al consumatore.

La tutela del consumatore effettuata mediante l’estensione della responsabilità del produttore a chi produttore non è ma ne condivide significativi dati esterni è offerta solo quando l’apposizione del marchio è effettuata da chi non è produttore per volutamente fruire di un’ambiguità rispetto al produttore? O, invece, va estesa anche quando produttore e non produttore condividono, come nel caso di specie, comunque e oggettivamente elementi nella denominazione alquanto consistenti nei propri dati identificativi?

Ci si chiede, pertanto, se la condivisione di elementi identificativi adeguati a confondere deve ritenersi frutto di una intenzionale specifica apposizione perché sia rafforzata la tutela del consumatore oppure anche una semplice coincidenza va ricondotta a un’attività di confondere i soggetti da sanzionare oggettivamente con la responsabilità paritaria rispetto all’effettivo produttore?

Il collegio, se da un lato apprezza la soluzione che tutela più intensamente il consumatore, dall’altro è ben consapevole che sarebbe sostenibile anche la linea offerta dal ricorrente. Per tale ragione rimette la questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, ord. 7 dicembre 2017, n. 29327
giurista risponde

Sottoscrizione del contratto falsificata Il contratto è valido se il soggetto la cui sottoscrizione viene falsificata ne è a conoscenza, ovvero se ne avvale?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene. – Cass., sez. III, 22 febbraio 2023 n. 5479.

Nel caso di specie, la società X di Y.Z. presentava un progetto finalizzato all’ottenimento di agevolazioni finanziarie al Ministero delle Attività Produttive che l’ammetteva alle agevolazioni richieste concedendo un contributo in conto impianti da erogarsi in tre rate e subordinava l’erogazione del contributo alla presentazione di una garanzia fideiussoria da parte della società, finalizzata a garantire l’eventuale restituzione del contributo ricevuto. La società Gamma prestava la garanzia a prima richiesta nell’interesse della società X di Y.Z. fino a concorrenza dell’importo della prima tranche. Dopo quattro anni, il Ministero, ritenuto che la società non avesse rispettato le condizioni necessarie per fruire del beneficio, chiedeva la restituzione del contributo e veniva escussa la polizza fideiussoria. La società garante, dopo aver pagato e chiesto invano la restituzione dell’importo alla società garantita, agiva in regresso. Fatta opposizione, nel corso del giudizio di primo grado emergeva, a seguito di consulenza grafica, che la firma Y.Z. apposta sul contratto di concessione della polizza fideiussoria era falsa.

Il Tribunale rigettava l’opposizione affermando che, anche se la firma era falsa, la polizza era pur sempre riconducibile alla società che l’aveva fatta propria producendola al Ministero per ottenere l’agevolazione concordata.

La Corte di Appello confermava la sentenza del Tribunale ed aggiungeva che, depositando la polizza fideiussoria al Ministero, la società aveva realizzato una condotta specificatamente diretta ad avvalersi del contratto di garanzia pur malamente stipulato sopportandone ogni conseguenza.

Avverso la sentenza era proposto ricorso per Cassazione dal X.Y. denunciando nullità o inesistenza del contratto di garanzia per falsità della sottoscrizione del legale rappresentante della società. Il ricorso era rigettato.

La Corte di Cassazione riteneva che i fatti indicano che si è verificata non una attività svolta da un falsus procurator, quanto la distinta ipotesi di contratto stipulato sotto nome altrui o con sostituzione di persona, pur con la decisiva variante che il falso nome è stato usato da colui che ha agito come rappresentante legale della società. Nel caso di specie non si è verificato che una persona, correttamente identificata, abbia agito in nome e per conto della società assumendo di averne i poteri, dei quali era sprovvisto. Vi è stata, invece, la sottoscrizione della polizza fideiussoria da parte di persona rimasta sconosciuta che ha firmato, in qualità di debitore, con il nome di X.Y. Il contratto è poi stato utilizzato dalla garantita per accedere ai finanziamenti.

Il contratto in tal modo stipulato non è nullo ma improduttivo di effetti nella sfera giuridica dell’apparente firmatario, a meno che questi non lo faccia proprio. Occorre distinguere le ipotesi in cui l’autore della dichiarazione abbia voluto per sé il risultato del negozio, ovvero abbia inteso attribuirlo al titolare del nome dato, dovendosi procedere di volta in volta ad una operazione ermeneutica del comune volere dei contraenti. Nel caso di specie, l’usurpatore non ha riferito il contratto a sé stesso, né alla persona di cui ha usato il nome bensì alla società. La statuizione finisce per essere assimilabile ad una spendita indebita del nome della società.

In questa situazione, allora, è possibile, mediante l’applicazione analogica delle norme sulla rappresentanza, la ratifica da parte della società, da accertarsi in concreto con esame dei comportamenti concludenti che integrino la manifestazione della volontà di avvalersi del contratto di garanzia. Ciò è accaduto nel caso di specie in cui la società, portata formalmente a conoscenza dell’avvenuta prestazione di garanzia da parte della garante, non soltanto non l’ha immediatamente disconosciuta, denunciando la falsità della firma ed esplicitando che il proprio legale rappresentante non aveva mai sottoscritto il contratto, ma se ne è avvalsa nell’ambito procedimentale del finanziamento chiesto al Ministero. Il successivo disconoscimento della firma sul contratto, effettuato solo in sede di opposizione a decreto ingiuntivo e neppure accompagnato da una denuncia penale, avvalorano la tesi che conduce al rigetto del ricorso e all’affermazione del principio di diritto per cui “Il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 10 novembre 2016, n. 22891