atti di ritiro

Atti di ritiro Atti di ritiro della Pubblica Amministrazione: definizione, normativa di riferimento, tipologie, requisiti di adozione e procedura

Cosa sono gli atti di ritiro

Gli atti di ritiro rappresentano importanti strumenti di autotutela della pubblica amministrazione. Essi consentono di correggere, eliminare o modificare provvedimenti amministrativi precedentemente adottati. Essi svolgono la funzione principale di garantire la legalità e l’efficienza dell’azione amministrativa, tutelando al contempo gli interessi della collettività e dei singoli cittadini.

Gli atti di ritiro sono, in sostanza, provvedimenti con cui la pubblica amministrazione decide di revocare o annullare un atto amministrativo già emanato. Si tratta di un meccanismo di correzione dell’attività amministrativa che si basa sul principio di legalità e sull’autotutela decisionale della pubblica amministrazione.

Normativa di riferimento

La fonte principale degli atti di ritiro è la Legge n. 241/1990, che regola il procedimento amministrativo. Gli articoli di riferimento più importanti sono:

  • art. 21-quinquies: disciplina la revoca degli atti amministrativi per motivi di opportunità o sopravvenuta inidoneità a perseguire l’interesse pubblico;
  • art. 21-nonies: prevede l’annullamento d’ufficio degli atti illegittimi, in presenza di un interesse pubblico, concreo e attuale a far caducare il provvedimento.

Tipologie  

Gli atti di ritiro si distinguono principalmente nelle seguenti tipologie:

  • annullamento d’ufficio: è finalizzato ad eliminare un atto viziato da illegittimità. Esso ha efficacia retroattiva, rendendo l’atto come mai esistito (art. 21 nonies Legge 241/1990);
  • revoca: viene disposta per ragioni di opportunità, quando l’atto non risponde più all’interesse pubblico. Essa produce effetti solo per il futuro (art. 21 quinques Legge n. 241/1990). La revoca può essere disposta in seguito a una nuova ponderazione delle finalità di interesse pubblico presenti quando l’atto era stato emanato, o perché sono sopravvenute delle circostanze che non rendono opportuno il provvedimento (in questo caso si parla anche di abrogazione).
  • decadenza: è prevista quanto vengono meno i requisiti di idoneità per costituire o continuare un rapporto, quando non vengono adempiuti gli obblighi imposti dal provvedimento o quando per un certo periodo non vengono esercitate le facoltà previste dal provvedimento.
  • mero ritiro: riguarda provvedimenti inefficaci.

Requisiti per l’adozione degli atti di ritiro

Per poter adottare un atto di ritiro, l’amministrazione deve rispettare determinati requisiti:

  • motivazione adeguata: deve essere specificata la ragione dell’annullamento o della revoca.
  • principio del legittimo affidamento: tutela i destinatari dell’atto amministrativo, evitando decisioni arbitrarie o ingiuste.
  • tempestività: l’annullamento d’ufficio deve avvenire entro un termine ragionevole dall’adozione dell’atto viziato.
  • Effetti temporali: l’annullamento d’ufficio ha effetto retroattivo, mentre la revoca produce effetti solo ex nunc (dal momento della sua adozione in avanti).

Funzionamento  

L’atto di ritiro segue un procedimento articolato che prevede:

  1. accertamento della situazione giuridica: l’amministrazione verifica la legittimità e l’opportunità del provvedimento;
  2. valutazione dell’interesse pubblico: si ponderano i benefici e gli eventuali danni derivanti dal ritiro dell’atto;
  3. notifica agli interessati: i soggetti coinvolti vengono informati e, in alcuni casi, possono presentare osservazioni;
  4. adozione dell’atto di ritiro: viene formalizzato con provvedimento motivato.

 

Leggi anche l’articolo dedicato agli “Atti paritetici” della Pubblica Amministrazione

Scia

SCIA: Segnalazione Certificata di Inizio Attività SCIA: cos'è, quando è necessaria, differenze con la CILA, quanto costa e giurisprudenza delle corti superiori

Cos’è la SCIA?

La SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) è uno strumento previsto dal sistema normativo italiano che consente a chi intende eseguire determinati lavori edilizi di avviare l’attività senza dover attendere il rilascio di un’autorizzazione preventiva. Si tratta di un importante strumento di semplificazione amministrativa, che permette di ridurre i tempi e i costi per ottenere l’autorizzazione a realizzare interventi edilizi.

La SCIA è un procedimento amministrativo che consente di avviare i lavori edilizi senza attendere una risposta preventiva dall’amministrazione pubblica. In pratica, il cittadino o l’impresa edile, al momento della presentazione della SCIA, può iniziare i lavori immediatamente, dichiarando che l’intervento sarà eseguito in conformità alla normativa vigente. L’amministrazione ha poi il compito di verificare la conformità dell’opera rispetto agli strumenti urbanistici e alle altre normative edilizie.

La SCIA si distingue dal tradizionale permesso di costruire in quanto non richiede un’autorizzazione preventiva, ma una semplice segnalazione che attesta la conformità del progetto. Una volta inviata la SCIA, l’amministrazione ha dai 30 ai 60 giorni di tempo, a seconda del tipo di SSCIA richiesta, per esprimere il proprio parere; se non c’è risposta entro questo termine, si considera che l’autorizzazione sia implicitamente rilasciata.

Quando è necessaria la SCIA?

La SCIA è necessaria per interventi edilizi che non comportano modifiche sostanziali al territorio, alla volumetria o alla destinazione d’uso di un immobile. È utilizzata soprattutto per lavori di manutenzione straordinaria, ristrutturazioni leggere, opere interne, e per quei lavori che non alterano la struttura urbanistica di un’area.

Alcuni esempi di lavori che richiedono la SCIA includono:

  • Manutenzione straordinaria: interventi che riguardano il restauro, la sostituzione o la modifica di parti strutturali di un edificio.
  • Ristrutturazioni leggere: lavori che modificano l’aspetto esteriore di un edificio, ma senza variare la volumetria o la destinazione d’uso
  • Apertura di attività commerciali: quando si intende avviare un’attività in un locale già esistente e conforme alle normative urbanistiche.

In generale, la SCIA è obbligatoria per quei lavori che non richiedono una modifica sostanziale del piano urbanistico o che non hanno un impatto significativo sull’ambiente e sulla sicurezza pubblica.

Differenze con la CILA

Molti tendono a confondere la SCIA con la CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata), ma tra i due strumenti vi sono differenze sostanziali:

SCIA

  • Necessità: la SCIA è necessaria per lavori che possono avere un impatto sul territorio, ma senza modificarne la destinazione d’uso o la volumetria.
  • Caratteristiche: consente di avviare i lavori senza attendere il rilascio di un’autorizzazione preventiva, ma l’amministrazione ha un termine di legge per effettuare eventuali controlli. Se non interviene, il permesso si considera rilasciato tacitamente.
  • Esempi: lavori di ristrutturazione leggera, ampliamenti, modifiche della facciata, interventi che non alterano le caratteristiche fondamentali dell’edificio.

CILA

  • Necessità: la CILA è utilizzata per lavori che non comportano modifiche sostanziali alla struttura dell’immobile e non incidono sulla volumetria. Viene usata principalmente per opere interne non invasive.
  • Caratteristiche: la CILA non richiede il parere dell’amministrazione, ma si deve allegare una dichiarazione asseverata da un tecnico abilitato che attesti la conformità dell’ È utilizzata principalmente per lavori di manutenzione ordinaria o piccoli interventi.
  • Esempi: rifacimento degli impianti, lavori di restauro e risanamento conservativo che non incidono sulla struttura.

Differenze principali

  1. Impatto del lavoro: la SCIA si applica a interventi più complessi e che potrebbero alterare la configurazione dell’edificio, mentre la CILA è destinata a lavori meno invasivi.
  2. Responsabilità tecnica: la SCIA può essere presentata senza il supporto di una perizia asseverata, mentre la CILA richiede una dichiarazione tecnica da parte di un professionista.
  3. Tempi di risposta: con la SCIA l’amministrazione ha a disposizione un determinato periodo di tempo per intervenire; con la CILA, invece, non ci sono termini di risposta specifici da parte dell’amministrazione.

Costi della SCIA

I costi legati alla presentazione di una SCIA dipendono principalmente dalle tariffe comunali e dalle spese professionali per l’assistenza tecnica. I costi variano da comune a comune e possono includere:

  • diritti di segreteria: i comuni stabiliscono una tariffa per la presentazione della SCIA, che può variare in base all’entità dell’intervento;
  • compenso per il professionista: se necessario, è possibile dover pagare una parcella per l’assistenza di un tecnico abilitato, che deve redigere la documentazione e asseverare la conformità del progetto;
  • eventuali oneri di costruzione: in alcuni casi, anche se la SCIA non prevede un’autorizzazione preventiva, potrebbero essere richiesti dei contributi per la realizzazione dell’opera, come gli oneri di urbanizzazione.

I costi per l’intero procedimento variano in base alla tipologia dell’intervento edilizio e alle normative specifiche del comune in cui vengono eseguiti i lavori.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha avuto un ruolo importante nell’interpretare e applicare le norme relative alla SCIA, in particolare riguardo alla sua correttezza applicativa e alle tempistiche di risposta da parte dell’amministrazione.

Consiglio di Stato n. 1256/2025: la SCIA edilizia acquisisce piena validità decorsi 30 giorni dalla sua presentazione, momento oltre il quale il comune perde il potere di ordinare la demolizione delle opere realizzate. Qualora, invece, intervenga una sospensione dei lavori, il comune è tenuto a emettere un ordine di ripristino entro 45 giorni; in caso contrario, tale provvedimento decade e la SCIA si consolida definitivamente.

Consiglio di Stato n. 467/2022: solo gli interventi di “edilizia libera”, definiti dall’articolo 6 del D.P.R. n. 380/2001 e dall’articolo 3, lettera e.5), possono essere eseguiti senza alcun titolo edilizio. La trasformazione di finestre in porte-finestre non rientra in questa categoria, poiché modifica i prospetti. Tale intervento è considerato manutenzione straordinaria ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 380/01 e richiede la presentazione di una SCIA (articolo 22, lettera b) del D.P.R. 380/2001).

Cassazione n. 15523/2019: anche se un intervento edilizio rientra nella categoria di quelli realizzabili tramite SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), è indispensabile ottenere l’autorizzazione paesaggistica esplicita qualora l’opera si trovi in un’area sottoposta a vincolo. Il principio del silenzio-assenso, previsto dalla legge 241/1990, non si applica in questi casi, poiché esclude atti e procedimenti relativi al patrimonio culturale e paesaggistico. Pertanto, l’assenza di tale autorizzazione costituisce reato, giustificando il sequestro preventivo dell’opera.

 

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principi del procedimento amministrativo

I principi del procedimento amministrativo Principi del procedimento amministrativo: normativa di riferimento, applicazione pratica e giurisprudenza in materia

Procedimento amministrativo: i principi

Il procedimento amministrativo è regolato da una serie di principi fondamentali che garantiscono il corretto esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione (PA). Tali principi, sanciti dalla legge n. 241/1990, assicurano che l’azione amministrativa sia efficiente, equa e trasparente. In questo articolo analizzeremo in dettaglio i principali principi: economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza e pubblicità, con riferimenti normativi e giurisprudenziali.

Normativa di riferimento

La disciplina del procedimento amministrativo è contenuta nella legge n. 241/1990, intitolata “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”.

Questa legge ha introdotto un modello più moderno di amministrazione partecipata, ponendo l’accento su criteri di efficienza e tutela dei cittadini.

Tra gli articoli più rilevanti troviamo:

Articolo 1: stabilisce i principi generali dell’azione amministrativa;

Art. 3: impone alla PA di motivare i provvedimenti amministrativi;

Articolo 7 e seguenti: disciplinano la partecipazione al procedimento;

Art. 22 e seguenti: regolano il diritto di accesso ai documenti amministrativi.

I 5 principi del procedimento amministrativo

L’azione della PA e il procedimento amministrativo devono ispirarsi e rispettare i seguenti principi:

Economicità

Il riferimento normativo di questo principio si trova nell’art. 1, comma 1 della legge n. 241/1990. Il principio di economicità impone alla PA di svolgere la propria attività ottimizzando risorse e costi. Ciò significa che le amministrazioni devono adottare soluzioni che garantiscano il miglior risultato possibile con il minore impiego di risorse pubbliche.

La giurisprudenza ha più volte ribadito che l’economicità dell’azione amministrativa non deve tradursi in un risparmio fine a sé stesso, ma deve essere bilanciata con gli altri principi, come l’efficacia e l’imparzialità.

Efficacia

Il riferimento normativo del principio dell’efficacia è rinvenibile nell’art. 1, comma 1, legge n. 241/1990. L’efficacia indica la capacità dell’azione amministrativa di raggiungere gli obiettivi prefissati nel minor tempo possibile. Questo principio è strettamente collegato ai termini procedimentali previsti dalla legge, che devono essere rispettati per evitare ritardi ingiustificati.

La giurisprudenza amministrativa ha affermato che un provvedimento amministrativo è inefficace se non è idoneo a produrre effetti concreti e conformi agli obiettivi della normativa di riferimento.

Imparzialità

Questo principio è richiamato dall’art. 97 Costituzione e dall’art. 1, legge n. 241/1990. Il principio di imparzialità, sancito dall’articolo 97 della Costituzione, impone alla PA di operare senza favoritismi o discriminazioni. Gli atti amministrativi devono essere adottati in modo neutro e obiettivo, senza influenze esterne o interessi personali.

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2070/2009 ha chiarito che il principio di imparzialità, con quello di legalità e del buon andamento, rappresenta uno dei pilastri sui quali si poggia lo statuto costituzionale della pubblica amministrazione. L’articolo 97 della Costituzione rappresenta un parametro importantissimo di valutazione dell’attività amministrativa e della sua legittimità, perchè rappresenta una declinazione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzionale.

Trasparenza

Il riferimento normativo per la trasparenza che deve caratterizzare l’azione della Pubblica Amministrazione si rinviene nel D.lgs. 33/2013 e nell’art. 1 della legge n. 241/1990. La trasparenza garantisce ai cittadini il diritto di conoscere l’azione amministrativa, favorendo il controllo diffuso sull’operato della PA. La normativa prevede che gli atti e i procedimenti siano accessibili e consultabili da chiunque ne abbia interesse.

Il Tar Veneto n. 2548/2024 ha sancito che la Pubblica Amministrazione è tenuta a soddisfare le richieste di accesso civico generalizzato, a meno che non comportino un aggravio per le normali attività degli uffici, che la stessa deve dimostrare.

Pubblicità

Il riferimento normativo è rinvenibile nell’art. 22 della legge n. 241/1990 e del D.lgs. 33/2013.

Il principio di pubblicità impone alla PA di rendere conoscibili ai cittadini atti e provvedimenti, salvo i casi di riservatezza espressamente previsti dalla legge (ad esempio, per ragioni di sicurezza nazionale o tutela della privacy).

Consiglio di Stato n. 7470/2010: il principio di pubblicità nelle gare d’appalto si applica rigorosamente solo quando le decisioni del seggio di gara possono influenzare la partecipazione dei concorrenti. Tale interpretazione è supportata da precedenti giurisprudenziali della Sezione V, specificamente le sentenze n. 6311 del 14 ottobre 2009 e n. 2355 dell’11 maggio 2007.

Considerazioni conclusive

L’azione della pubblica amministrazione deve essere efficiente, equa e accessibile, nel rispetto dei principi sanciti dalla legge 241/1990 e dalla Costituzione. La giurisprudenza amministrativa ha più volte confermato l’importanza di questi principi, che rappresentano un baluardo contro abusi e inefficienze.

 

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baratto amministrativo

Baratto amministrativo Baratto amministrativo: cos’è, normativa di riferimento, chi può accedervi, come funziona, quali vantaggi offre

Cos’è il baratto amministrativo

Il baratto amministrativo è un’agevolazione prevista per i cittadini che permette di ridurre o esentarsi dal pagamento di tributi locali in cambio di attività di pubblica utilità. Introdotto per favorire la collaborazione tra cittadini e amministrazioni comunali, il baratto amministrativo rappresenta un’opportunità per chi si trova in difficoltà economica.

A cosa serve

Il baratto amministrativo consente, in sostanza ai cittadini di pagare tasse e tributi locali attraverso prestazioni lavorative a favore del Comune. Questo sistema prevede lo svolgimento di servizi come:

  • manutenzione del verde pubblico;
  • pulizia delle strade e degli spazi urbani;
  • recupero di edifici e beni comunali;
  • supporto in attività sociali e culturali.

In pratica, invece di versare l’importo dovuto per TASI, IMU o altri tributi locali, il cittadino può offrire il proprio contributo lavorativo, ottenendo uno sconto totale o parziale sulle imposte dovute.

Normativa di riferimento

Il baratto amministrativo è stato introdotto con l’art. 24 del D.L. n. 133/2014 (Sblocca Italia), poi convertito nella Legge n. 164/2014. Questa norma consente ai Comuni di attivare progetti specifici per la gestione del baratto amministrativo, stabilendo i criteri di accesso e i servizi richiesti.

Chi può accedervi

Le regole per accedere al baratto amministrativo sono definite dai singoli Comuni, ma in genere possono partecipare:

  • cittadini in difficoltà economica con un ISEE sotto una soglia stabilita dal regolamento comunale;
  • disoccupati o inoccupati;
  • persone con redditi bassi che faticano a pagare tributi locali;
  • associazioni e imprese sociali, se previsto dal Comune.

Per accedere al beneficio, è necessario presentare una domanda al Comune di residenza, allegando la documentazione richiesta (ISEE, certificati di disoccupazione, ecc.).

Come funziona

Il funzionamento varia a seconda del Comune, ma solitamente segue questi passaggi:

  1. il Comune pubblica un bando con le modalità di accesso e le attività richieste;
  2. i cittadini interessati presentano la domanda allegando i documenti necessari;
  3. l’amministrazione valuta le richieste e seleziona i beneficiari;
  4. il cittadino svolge l’attività assegnata secondo il numero di ore previsto;
  5. il Comune riduce o annulla il tributo locale in base al lavoro effettuato.

Vantaggi del baratto amministrativo

  • aiuta i cittadini in difficoltà a mettersi in regola con i tributi;
  • migliora il decoro urbano e la gestione dei servizi locali;
  • favorisce l’integrazione sociale attraverso attività di pubblica utilità;
  • offre un’alternativa equa per chi non può pagare le tasse.

 

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atti paritetici

Atti paritetici Atti paritetici della PA: definizione, normativa, caratteristiche, giurisprudenza e differenze con i provvedimenti amministrativi

Cosa sono gli atti paritetici

Gli atti paritetici della Pubblica Amministrazione sono atti giuridici che non esprimono un potere autoritativo, ma si pongono su un piano di parità tra lamministrazione e i destinatari. A differenza dei provvedimenti amministrativi, che impongono unilateralmente obblighi e vincoli, gli atti paritetici si basano su una relazione di tipo negoziale o dichiarativo.

Normativa di riferimento

Gli atti paritetici non trovano una regolamentazione specifica in un’unica norma, ma si inseriscono nel più ampio contesto del diritto amministrativo, regolato da:

  • Legge n. 241/1990 – Principi generali dell’azione amministrativa;
  • Codice Civile, per quanto riguarda gli atti negoziali della P.A.;
  • Giurisprudenza amministrativa, che ha chiarito il confine tra atti autoritativi e atti paritetici.

Caratteristiche

Gli atti paritetici della Pubblica Amministrazione si distinguono per le seguenti caratteristiche:

  • Mancanza di autoritatività: non impongono obblighi o vincoli unilaterali ai destinatari;
  • Posizione di parità tra amministrazione e soggetti privati;
  • Possibilità di impugnazione solo se l’atto produce effetti lesivi per il destinatario;
  • Ricorso a strumenti di diritto civile, come i contratti.

Giurisprudenza di rilievo

Di seguito alcuni pronunciamenti del Consiglio di Stato in materia:

Consiglio di Stato n.1388/1996:  nell’ambito delle sanatorie edilizie, si distingue tra la natura regolamentare degli atti che stabiliscono i criteri generali per calcolare l’oblazione e i contributi, e la natura paritetica degli atti con cui il Sindaco, applicando tali criteri, determina l’importo dovuto. Solo le contestazioni relative ai criteri generali sono impugnabili come atti regolamentari, mentre tutte le altre controversie riguardanti l’ammontare delle somme dovute rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo, ma in relazione a diritti soggettivi, poiché l’Amministrazione agisce come un soggetto privato, limitandosi ad applicare parametri normativi predefiniti.

Consiglio di stato n. 12/2018: la determinazione e la liquidazione del contributo di costruzione da parte della Pubblica Amministrazione non rappresentano un atto autoritativo, ma l’esercizio di un diritto di credito del Comune legato al rilascio oneroso del permesso di costruire. Questo rapporto obbligatorio, di natura paritetica, è soggetto alla prescrizione decennale. Di conseguenza, non si applicano le norme sull’autotutela amministrativa né le disposizioni relative agli atti autoritativi.

Atti paritetici e provvedimenti: differenze

Caratteristica Atti paritetici Provvedimenti amministrativi
Autoritatività No
Posizione tra le parti Paritaria Squilibrata (P.A. superiore)
Effetti giuridici Dichiarativi o negoziali Impositivi e unilaterali
Impugnabilità Solo se lesivi Sempre possibile

Conclusioni

Gli atti paritetici della Pubblica Amministrazione rappresentano quindi strumenti di gestione amministrativa che si differenziano dai provvedimenti autoritativi per la loro natura non impositiva e la posizione di parità tra le parti. Pur non essendo vincolanti in senso unilaterale, giocano un ruolo fondamentale nella regolamentazione dei rapporti tra enti pubblici e privati, garantendo trasparenza e certezza del diritto.

 

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scuola

Scuola: le nuove indicazioni del ministero Dal latino alle medie alla Bibbia e Harry Potter alla primaria, il MIM ha pubblicato le nuove linee guida per i programmi scolastici

Nuove indicazioni scolastiche MIM

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha pubblicato le nuove linee guida per i programmi della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione. Le modifiche, previste a partire dall’anno scolastico 2026/2027, introducono significative innovazioni, tra cui l’insegnamento del Latino negli ultimi due anni delle scuole medie, della Bibbia e dei grandi classici, come l’Iliade e l’Odissea, fin dalla prima elementare, oltre che di libri come Harry Potter sul fronte della letteratura.

Riforma del curricolo scolastico: le novità principali

La proposta nasce dal lavoro della Commissione incaricata della revisione delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, che, si legge sul sito del Ministero, ha terminato i lavori di redazione della bozza di documento “Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025”.

Il documento, al momento, è stato reso pubblico per avviare un dibattito aperto sulle nuove direttive educative.

La consultazione

Il testo infatti sarà oggetto di ampia consultazione, che coinvolgerà associazioni professionali e disciplinari, associazioni dei genitori e degli studenti e organizzazioni sindacali della scuola.

Il confronto sarà utile per avviare l’iter formale di adozione delle Nuove Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione che andranno a sostituire dall’anno scolastico 2026/2027 quelle adottate nel novembre 2012.

permesso di soggiorno

Permesso di soggiorno: stessa pena per uso documenti contraffatti Per la Consulta non è costituzionalmente illegittima la mancata previsione di una riduzione della pena per chi usa un documento falsificato da altri per ottenere il permesso di soggiorno

Documenti contraffatti per permesso di soggiorno

L’uso di documenti contraffatti per ottenere un permesso di soggiorno: la pena prevista dalla legge non è manifestamente sproporzionata. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale, chiamata a giudicare la legittimità del Testo Unico sull’immigrazione, nella parte in cui non prevede una riduzione della pena per chi si limiti a utilizzare un documento da altri falsificato per ottenere un documento di soggiorno.

La qlc

Con la sentenza n. 27/2025, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione sollevata da un GIP del Tribunale di Vicenza. Il processo principale concerneva un cittadino straniero che aveva presentato alla Questura un certificato di conoscenza della lingua italiana poi rivelatosi contraffatto, al fine di ottenere un permesso di lungo soggiorno per cittadini non appartenenti all’Unione europea.

In sede di giudizio abbreviato, il GIP aveva deciso di sospendere il processo e di chiedere alla Consulta se sia legittimo prevedere la pena della reclusione da uno a sei anni sia per chi materialmente abbia falsificato il documento, sia per chi si sia limitato a utilizzarlo.

Il GIP aveva in particolare rilevato che il codice penale, nel disciplinare in via generale i reati di falso, prevede una riduzione della pena per chi si sia limitato a fare uso di un documento da altri falsificato. Il diverso e più grave trattamento dell’uso del documento falso da parte dell’articolo 5, comma 8-bis, del testo unico sull’immigrazione violerebbe il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, con conseguente pregiudizio alla funzione rieducativa della pena, stabilita dall’art. 27 della Costituzione.

La decisione

La Corte, tuttavia, ha ritenuto infondati i dubbi del GIP. Anzitutto, la Costituzione non vieta al legislatore di prevedere un trattamento sanzionatorio più severo, rispetto a quello stabilito per i comuni reati di falso, per i falsi in materia di immigrazione, i quali offendono l’interesse statale a una ordinata gestione dei flussi migratori.

In secondo luogo, la Corte ha osservato che la condotta consistente nel semplice uso del documento falsificato per ottenere un documento di soggiorno non deve essere necessariamente considerata meno grave della condotta di falsificazione del documento stesso. “Chi presenta un documento falso alla Questura per ottenere un permesso di soggiorno normalmente ha anche concorso nella sua falsificazione, fornendo all’autore materiale i propri dati identificativi. Inoltre, è proprio l’uso del documento a creare l’immediato rischio che venga rilasciato un documento di soggiorno in assenza dei requisiti di legge, mentre la falsificazione del documento costituisce soltanto un’attività preparatoria rispetto a questo scopo”.

La norma in esame, dunque, non viola né il principio di eguaglianza, né il principio di proporzionalità delle sanzioni penali, desunto dalla finalità rieducativa della pena.

cittadinanza allo straniero

Cittadinanza allo straniero che non conosce l’italiano La Consulta ha ritenuto incostituzionale la norma che in materia di cittadinanza allo straniero non esclude chi è oggettivamente impedito ad imparare l'italiano

Cittadinanza allo straniero

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 25/2025 ha affermato che vìola il principio di uguaglianza la norma che subordina l’acquisto della cittadinanza allo straniero – per matrimonio o naturalizzazione – alla conoscenza dell’italiano a livello intermedio per qualunque soggetto, senza eccettuare chi versi in condizioni di oggettiva e documentata impossibilità di acquisirla in ragione di una disabilità.

Legge 91/1992

E’ stata, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 «nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente [la cittadinanza] affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica».

Eguaglianza formale e sostanziale

Secondo la Consulta, è violato, anzitutto, il principio di eguaglianza formale per trattamento uguale – ingiustificato e irragionevole – di situazioni diverse. Infatti, con l’imposizione generalizzata del requisito linguistico, il legislatore non ha tenuto conto della condizione di coloro che, in ragione di determinate menomazioni, versano in situazione oggettivamente diversa dalla generalità dei richiedenti la cittadinanza.

Ancora, la disciplina uniforme dettata dall’art. 9.1 offende il principio di eguaglianza nella sua declinazione sostanziale perché frappone, anzi che rimuovere, un ostacolo all’acquisto dello status di cittadino per tale specifica categoria di persone vulnerabili e dà luogo ad una loro discriminazione indiretta.

Il requisito della prova

Infine, la Consulta ha ritenuto che la norma sia irragionevole perché contraria al principio «ad impossibilia nemo tenetur»: il requisito della prova della conoscenza della lingua a livello intermedio si rivela, infatti, una condizione inesigibile per quegli stranieri che siano oggettivamente impediti ad apprenderla in ragione di una disabilità.

licenza edilizia

Licenza edilizia La licenza edilizia: definizione, evoluzione normativa nella concessione edilizia e nel permesso di costruire, giurisprudenza rilevante

Cos’è la licenza edilizia

La licenza edilizia era, un tempo, un’autorizzazione rilasciata dalle autorità competenti per la realizzazione di interventi edilizi. Essa serviva a certificare che i lavori da eseguire fossero conformi alla normativa urbanistica e alle leggi edilizie locali. La licenza si distingue dalla concessione edilizia, in quanto originariamente era un vero e proprio atto di “permissio” da parte dell’amministrazione pubblica, che legittimava l’inizio dei lavori.

La licenza edilizia si basava sul presupposto che l’amministrazione avesse il diritto di autorizzare o vietare la costruzione di edifici, in funzione del rispetto delle norme di pianificazione territoriale, dell’estetica del paesaggio e delle esigenze di sicurezza.

Dalla licenza edilizia alla concessione edilizia

L’introduzione della legge 28 gennaio 1977, n. 10, segna un momento fondamentale nell’evoluzione della licenza edilizia, quando la licenza edilizia viene sostituita dalla concessione edilizia. In questo periodo, l’autorità comunale non rilasciava più una licenza “discrezionale”, ma una concessione che divenne un atto vincolato, basato sull’esistenza di determinate condizioni legali.

La concessione edilizia, a differenza della licenza, non dipendeva più dalla valutazione soggettiva dell’amministrazione, ma era subordinata alla verifica del rispetto di specifici requisiti stabiliti dal piano regolatore e dalle normative urbanistiche locali.

La concessione edilizia: un nuovo approccio

La legge n. 10/1977 stabilì che la concessione edilizia doveva essere rilasciata se l’opera proposta fosse conforme agli strumenti urbanistici, alla legislazione edilizia e alle prescrizioni del piano territoriale. Questo significava che i comuni non avevano più un margine di discrezionalità nel decidere se autorizzare o meno l’opera, ma erano obbligati a rilasciare la concessione se il progetto rispettava le normative. La concessione edilizia mirava a semplificare le pratiche burocratiche, rendendo l’iter edilizio più chiaro e uniforme.

La sostituzione con il permesso di costruire

Con l’entrata in vigore del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), la concessione edilizia venne sostituita dal permesso di costruire. Sebbene il permesso di costruire rappresenti una continuazione del principio giuridico della concessione edilizia, esso ha introdotto una maggiore semplificazione e velocizzazione dei procedimenti burocratici e ha ridotto le distinzioni tra interventi ordinari e straordinari.

La principale novità del permesso di costruire è che l’amministrazione non si limita a verificare la conformità dell’opera rispetto alle normative, ma ha anche il compito di valutare l’impatto dell’opera sull’ambiente e sulla qualità urbana. Inoltre, il permesso di costruire non è più rilasciato da un atto discrezionale dell’amministrazione, ma è subordinato a controlli puntuali su vari aspetti tecnici e normativi.

Giurisprudenza sulla licenza edilizia

Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione delle norme relative alla licenza edilizia e alle successive forme di autorizzazione edilizia. Diverse sentenze hanno cercato di chiarire la distinzione tra i vari tipi di autorizzazione e di interpretare la legittimità di determinate pratiche edilizie.

Cassazione civile n. 29166/2021

La licenza o concessione edilizia ha rilevanza solo nel rapporto tra la Pubblica Amministrazione e il privato richiedente, senza influenzare i rapporti tra privati, che restano regolati dal codice civile, dalle leggi speciali in materia edilizia e dai regolamenti locali. Pertanto, nelle controversie tra privati riguardanti opere edilizie, la presenza o assenza della concessione è irrilevante, salvo il caso di licenza in deroga. Il rispetto della concessione non garantisce di per sé l’assenza di violazioni dei diritti di terzi, così come la mancanza della licenza non comporta automaticamente un illecito, purché la costruzione sia conforme alle norme vigenti.

Cassazione n. 43840/2018

La mancata approvazione della licenza edilizia non incide sulla qualificazione di un’area come “cantiere”, secondo la definizione fornita dal D. Lgs. n. 81/2008. Diversamente, si rischierebbe di escludere dall’applicazione del diritto penale del lavoro attività edili abusive o completamente irregolari, favorendo l’elusione della normativa predisposta a tutela dei lavoratori, un’eventualità evidentemente inaccettabile.

Cassazione n. 2852/1983

La licenza edilizia ha la funzione limitata di eliminare un ostacolo di natura pubblicistica all’esercizio del diritto di edificare, senza tuttavia conferire all’attività del privato un carattere di interesse generale. Inoltre, esso non incide sugli eventuali vincoli di diritto privato che possano impedire la realizzazione dell’opera, i quali restano pienamente efficaci e non subiscono alcuna interferenza. Di conseguenza, anche quando la licenza è stata rilasciata legittimamente, il giudice ordinario conserva il potere di valutare la conformità della costruzione alle disposizioni del regolamento edilizio, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle distanze legali.

 

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abusi edilizi sopravvenuti

Abusi edilizi sopravvenuti: le sanzioni valgono per tutti La Corte Costituzionale ha stabilito che anche le autonomie speciali devono attenersi al regime sanzionatorio dettato per gli abusi edilizi sopravvenuti

Abusi edilizi sopravvenuti

Anche le autonomie speciali devono attenersi al regime sanzionatorio dettato dall’art. 38 del TU Edilizia per gli abusi edilizi sopravvenuti. Lo ha affermato la Consulta che, con la sentenza n. 22/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 10, della legge della Provincia di Bolzano 10 gennaio 2022, numero 1 (Disposizioni collegate alla legge di stabilità provinciale per l’anno 2022), per violazione degli articoli 4 e 8 dello statuto speciale, in quanto in contrasto con le norme fondamentali di riforma economico sociale, quali sono gli articoli 36 e 38 del d.P.R. 6 giugno 2001, numero 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).

Il regime sanzionatorio della fiscalizzazione dell’abuso

La Corte Costituzionale ha per la prima volta riconosciuto che, al pari dell’articolo 36 del Testo unico edilizia, anche l’articolo 38, nel prevedere un peculiare regime sanzionatorio (fiscalizzazione dell’abuso) per i cosiddetti “abusi edilizi sopravvenuti” (ossia realizzati in conformità a un titolo abilitativo in seguito annullato), mira a proteggere interessi di primaria importanza e di segno complessivamente unitario (in quanto correlati al governo del territorio e alla tutela del paesaggio e dell’ambiente), con conseguente necessità di attuazione uniforme a livello nazionale che non può subire differenziazioni regionali.

Le sanzioni valgono anche per le autonomie speciali

Nella sentenza si afferma, in particolare, “che le specifiche condizioni richieste dall’articolo 38 (impossibilità di procedere alla rimozione dei vizi procedurali e impossibilità tecnica di procedere alla restituzione in pristino), per consentire il pagamento di una sanzione pecuniaria pari al valore venale dell’opera abusiva in luogo della demolizione, costituiscono elementi determinanti del punto di equilibrio tra opposti interessi, individuato dal legislatore statale al fine di un ordinato governo del territorio”.

Pertanto, ha concluso il giudice delle leggi, alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome non è dato introdurre ulteriori criteri di valutazione dell’impossibilità di ripristino, né della determinazione del “prezzo” da pagare per evitare la demolizione di un immobile; né, infine, graduare la sanzione in funzione della gravità del danno urbanistico arrecato dalla trasformazione del territorio.