Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro
Il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo, laddove la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, primo comma, c.c.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente, intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile da parte del custode. – Cass. III, 8 settembre 2023, n. 26209.
Nel caso di Specie la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’appello di non accogliere la domanda risarcitoria ex art. 2051 c.c. proposta dal motociclista nei confronti del Comune in relazione alla caduta dal motociclo, avvenuta a causa della presenza di una buca sul manto stradale.
La condotta del danneggiato è risultata imprudente e disattenta al punto tale da integrare il caso fortuito e, di conseguenza, giustificare l’esclusione di responsabilità del Comune in ordine alla caduta.
La prova del caso fortuito è l’unica prova liberatoria che il legislatore ammette in capo al custode, a nulla rilevando la prova della sua diligente custodia.
Pertanto la mancanza di prova relativa alla prevedibilità o meno del fatto dannoso (sub specie caduta dal motociclo) da parte del custode (il Comune) non rileva; ciò che conta è solo la prova dell’esistenza di un caso fortuito, nella specie, integrato dal contegno colposamente disattento del danneggiato, non mero concorrente nell’evento di danno ma autonomo responsabile del danno stesso.
Nel giungere a tale esito la Corte di Cassazione ha strutturato il proprio impianto argomentativo sulla scorta dell’intervento nomofilattico inaugurato dalle storiche sentenze gemelle del 2006 (Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15383 e Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15384) e del 2018 (Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483 e Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477) e terminato con un’ulteriore pronuncia a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943).
Appare opportuno ripercorrere, per punti salienti, l’analisi strutturale condotta dalla giurisprudenza intorno agli artt. 2051 e 1227 c.c. sulla quale si fonda la presente pronuncia e da cui emerge un vero e proprio statuto della responsabilità del custode:
a) preliminarmente, è necessario precisare che il legislatore del 1942 non ha mai fornito una definizione normativa della custodia. Invero l’art. 2051 c.c. si è limitato a tradurre l’espressione francese sous sa garde presente nell’art. 1384, comma 1, Code Napoleon. La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia rilevato le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità, rinvenibili dalle fonti romane (vedasi la accezione di diligentia e custodiendae rei).
In ordine alla definizione del concetto di custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c. sono maturati in giurisprudenza due opposti orientamenti: secondo il primo, minoritario, si può definire “custode” colui che usa e sfrutta economicamente la res. Il profitto tratto dal soggetto a seguito dell’utilizzo della cosa, in ragione del principio cuius commoda eius et incommoda, giustifica l’addossamento in capo allo stesso della qualifica di custode e, quindi, della relativa responsabilità.
Invece, in base al secondo orientamento considerato prevalente, è “custode” il soggetto che, a qualsiasi titolo (esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia), conserva un potere di fatto sulla cosa.
Per pervenire ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., dunque, non è sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa ma di un potere di fatto sul bene, in virtù del quale il custode può vigilare, controllare i rischi inerenti alla cosa e intervenire tempestivamente in caso di pericolo per i terzi (ex multis Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422).
Dal momento che la relazione giuridica con la cosa non è una relazione qualificata (come potrebbe essere la relazione esistente in forza di un contratto o di natura proprietaria) ma è una relazione di mero fatto, la stessa non è elemento costitutivo della responsabilità – a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052, 2053, 2054 c.c. – motivo per cui il responsabile ex art. 2051 c.c. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res.
L’applicazione dell’art. 2051 c.c. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria).
b) È quindi “ormai indiscutibile” che la responsabilità ex 2051 c.c. sia di natura oggettiva e non presunta (o semioggettiva). È una responsabilità da relazione in quanto, ciò che rileva quale presupposto ai fini della configurazione della stessa, è l’esistenza di una mera relazione di custodia tra il soggetto e il bene.
Invero il criterio di imputazione della responsabilità individuato dall’art. 2051 c.c., prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché non rilevano la pericolosità o le caratteristiche intrinseche della cosa custodita così come non rileva la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza eventualmente commesse dal custode (rilevante solo ai fini della fattispecie di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c. c.), salvo che la deduzione delle stesse non sia diretta soltanto a sostenere la prova del rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso.
c) Sul custode, invece, grava l’onere della prova liberatoria sub specie di prova dell’esistenza del caso fortuito, a nulla rilevando la prova della diligenza o, a contrario, dell’assenza di colpa del custode stesso.
Se la colpa rilevasse, il custode si libererebbe ogni qualvolta riuscisse a provare che, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.
d) Il caso fortuito, così come definito dalla succitata sentenza delle Sezioni Unite, è rappresentato da un fatto causale naturale o un fatto del terzo, estraneo alla sfera soggettiva del custode e connotato dai caratteri di imprevedibilità ed inevitabilità da intendersi dal punto di vista oggettivo e della regolarità causale (adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.
Questo è confermato dalla circostanza per cui, le modifiche improvvise della struttura della cosa, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, si trasformano in nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere.
Occorre, in altre parole, effettuare un giudizio di probabilità per dimostrare che quell’evento è frutto di un fatto del tutto imprevedibile in base all’id quod plerumque accidit (la comune esperienza).
Sul punto la presente pronuncia interviene al fine di precisare che, sul piano della struttura della fattispecie, il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo.
Ciò significa che il caso fortuito è la causa diretta e esclusiva dell’evento, senza alcun coinvolgimento di fattori soggettivi o colpevoli.
e) Invece la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, comma 1, c.c.), i quali possono rappresentare la causa principale del danno (rilevanza causale esclusiva) o possono contribuire insieme al caso fortuito all’evento dannoso (rilevanza causale concorrente), dando vita ad un concorso tra causa umana e causa naturale.
Anche le condotte umane suddette devono possedere i caratteri di imprevedibilità e inevitabilità, intesi da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o adeguata) ovvero presentarsi come oggettivamente imprevedibili da parte del custode.
A tal fine, il comportamento del danneggiato che entri in interazione con la cosa e risulti colposo, può atteggiarsi in ordine di crescente di gravità integrando, alternativamente, o un mero concorso causale colposo (in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1) o un fatto idoneo a recidere il nesso causale tra cosa e danno e, di conseguenza, escludere la responsabilità del custode (integrando un caso fortuito ex art. 2051 c.c.).
La Cassazione ha infatti osservato che quanto più è possibile evitare la situazione di pericolo attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato tanto più l’incidente deve considerarsi l’effetto del comportamento del danneggiato, fino ad escludere ogni responsabilità del custode.
Se, da un lato, il rapporto tra cosa e custode è improntato al principio di precauzione – per cui egli deve sempre predisporre tutte le misure affinché il bene sia reso inoffensivo – dall’altro lato, i soggetti che vengono in contatto con la cosa devono, del pari, adottare tutta le misure di normale diligenza richieste dalla situazione specifica.
Il dovere generale di ragionevole cautela in capo al danneggiato costituisce espressione del generale dovere di solidarietà, ex art. 2 Cost.
Quanto più il danneggiato può prevedere e superare la situazione di possibile danno attraverso l’adozione delle normali cautele richieste dalle circostanze, tanto più il comportamento imprudente dello stesso deve considerarsi dotato di incidenza causale nella causazione del danno.
Il comportamento imprudente del danneggiato può addirittura giungere ad interrompere il nesso eziologico tra cosa custodita ed evento dannoso tutte le volte in cui sia prevedibile in astratto ma imprevedibile in concreto da parte del custode (ovvero sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale).
Quindi la solidarietà, letta come dovere di cautela rispetto alla situazione concreta ed entro la normale diligenza valutabile in base al canone della proporzionalità, condiziona il grado di incidenza causale che ha il comportamento del danneggiato sull’evento dannoso e, quindi, sulla responsabilità del custode.
f) La sentenza ha il pregio di chiarire che il fondamento della responsabilità per danno da cose in custodia, intesa come responsabilità oggettiva, riposa su elementi di fatto individuati tanto in positivo (l’accertamento di un danno giuridicamente rilevante, la prova di una relazione causale tra l’evento dannoso e la cosa custodita e l’imputazione in capo al custode dell’obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera provando il caso fortuito) quanto in negativo (l’inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l’irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).
Pertanto, nonostante la presenza della buca sul manto stradale, la condotta imprudente del motociclista è risultata idonea a interrompere il nesso di causalità tra la cosa (il manto stradale maltenuto) e il danno (caduta del motociclista) così escludendo qualsivoglia responsabilità in capo al Comune (custode del bene), a nulla rilevando la negligenza tenuta dal Comune nella manutenzione della strada.
Per tale ragione la Cassazione ha rigettato il ricorso con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali.
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI |
Conformi: Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943; Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483; Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477; Cass. III, 6 luglio 2006, 15383; Cass. III, 6 luglio 2006, e 15384; Cass., Sez. Un., 11 novembre 1991, n. 12019; Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422 |
Difformi: Cass. III, 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass. III, 14 marzo 2006, n. 5445; Cass. III, 20 febbraio 2006, n. 3651 |