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Revenge Porn In cosa consiste e come è punito il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn)

revenge porn

Cos’è il revenge porn

L’espressione «revenge porn», che tradotta letteralmente significa «vendetta porno» o «vendetta pornografica», è nata nel mondo inglese e sta ad indicare quella odiosa pratica consistente nel vendicarsi di qualcuno (spesso l’ex partner) diffondendo materiale sessualmente connotato che lo ritrae.

Per «revenge porn», si intende, dunque, la divulgazione non consensuale, dettata da finalità vendicative, di immagini intime raffiguranti l’ex partner.

Una delle motivazioni più comuni di tale condotta è, infatti, la vendetta del partner dopo la rottura della relazione. Lo stesso termine, però, è utilizzato anche in senso più ampio per indicare offese diverse portate con la stessa modalità.

Il fenomeno del revenge porn negli ordinamenti anglosassoni

Il reato conosciuto agli onori di cronaca come «revenge porn» è stato introdotto e disciplinato quale autonoma fattispecie criminale dapprima nei paesi di Common Law: tra i precursori in Europa troviamo l’Inghilterra, che ha inserito nel Criminal Justice and Courts Act 2015 (CJCA 2015) la «Section 33», intitolata «Disclosure of private sexual photographs and films with intent to cause distress», ovverosia il reato di divulgazione di fotografie o video di carattere sessuale e privato, compiuta senza il consenso della persona ritratta nella foto o nel video, con lo «scopo di causare sofferenza»; allo stesso modo la Scozia nel 2016 ha introdotto nell’ordinamento il reato di «Abusive behavior and sexual harm».

In particolare, la prima definizione del fenomeno risalirebbe addirittura al 25-9-2007 con lo slang anglosassone contenuto nel dizionario online conosciuto con il nome di Urban Dictionary: si tratterebbe dell’«homemade porn uploaded by ex girlfriend or (usually) ex boyfriend after particularly vicious breakup as a means of humiliating the ex or just for own amusement». L’espressione, originariamente di chiaro tenore colloquiale, si è diffusa al punto di penetrare finanche il prestigioso dizionario Cambridge, che lo definisce «private sexual images or films showing a particular person that are put on the internet by a former partner of that person, as an attempt to punish or harm them».

Entrambe le definizioni delineano gli elementi essenziali per la configurabilità del reato de quo: la creazione consensuale, all’interno di un contesto sentimentale di coppia, di immagini (video o foto) sessuali, o comunque intime, e la loro non consensuale pubblicazione da parte dell’ex partner, al fine di vendicarsi a seguito della rottura – spesso burrascosa («vicious breakup») – della relazione amorosa. Il mezzo utilizzato per la diffusione è Internet: difatti, secondo il Cambridge Dictionary, le immagini «are put on the internet», per l’Urban Dictionary sono «uploaded» in rete.

Studi stranieri dimostrano infatti la tendenza ad utilizzare le immagini intime – non per forza realizzate consensualmente o, addirittura, consapevolmente – come uno strumento di coercizione e di controllo, attraverso la minaccia di diffusione delle stesse in caso di rottura della relazione, di abbandono o di mancata sottomissione ad atti sessuali.

A livello sovranazionale vengono inquadrati nella violenza di genere gli abusi perpetrati attraverso immagini sessualmente esplicite. Sul fronte convenzionale, vanno segnalate le sentenze CEDU Volodina c. Russia, 9-7-2019, e Volodina c. Russia (n. 2), 14-9-2021, che qualificano la disseminazione non consensuale di immagini intime come una forma di «violenza contro le donne».

Sul fronte comunitario, invece, pende una proposta di direttiva da parte della Commissione europea (dell’8-3-2022) volta a contrastare la violenza di genere e armonizzare le legislazioni degli Stati membri. Tra le disposizioni, l’art. 7 prevede che gli Stati assicurino l’incriminazione delle condotte di diffusione di immagini intime, anche manipolate.

Le vicende ispiratrici della riforma: i casi Cantone e Sarti

L’intervento legislativo è giunto subito dopo il caso di Tiziana Cantone, che ha avuto una notevole eco nell’opinione pubblica. La donna, dopo la diffusione in Internet contro la sua volontà di alcuni filmati hard di cui era protagonista, era stata oggetto di pesanti e continue offese e aggressioni al suo onore e alla sua reputazione che l’avevano spinta a togliersi la vita il 13-9-2016. Il caso aveva rivelato la straordinaria pericolosità del fenomeno, reso incontrollabile dagli strumenti telematici che, non solo rendono pressoché impossibile porre un argine alla diffusione delle immagini e ai commenti, ma consentono anche agli aggressori di colpire in anonimato. Pochi giorni dopo la morte di Tiziana Cantone è stato presentato il primo progetto di legge per l’introduzione di un reato specifico. Un’altra vicenda, che ha coinvolto la deputata Giulia Sarti, ha ulteriormente accelerato l’iter di approvazione, che si è concluso con la promulgazione della L. 69/2019, nella quale è stato inserito il nuovo reato di cui all’art. 612ter c.p.

L’allarmante dilagare del fenomeno maggiormente noto alla cronaca e nelle aule di tribunale con il neologismo anglosassone «revenge porn» – locuzione che intende, in maniera ad oggi generalizzata, definire la condotta che abbia ad oggetto la diffusione di immagini a contenuto pornografico contro, ovvero in assenza, di esplicito consenso da parte del soggetto ritratto – è stato il moto propulsore per il legislatore italiano nell’introduzione dell’art. 612ter c.p. , volto a sopperire una lacuna normativa nella tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Il delitto di cui all’art. 612ter c.p., perlomeno in alcune sue manifestazioni, è stato pertanto inquadrato non solo all’interno della cornice della violenza di genere, come ormai riconosciuto con sempre maggiore nettezza a livello sovranazionale, ma anche nella sua sottospecie della violenza domestica. Studi stranieri dimostrano infatti la tendenza ad utilizzare le immagini intime – non per forza realizzate consensualmente o, addirittura, consapevolmente – come uno strumento di coercizione e di controllo, attraverso la minaccia di diffusione delle stesse in caso di rottura della relazione, di abbandono o di mancata sottomissione ad atti sessuali. In questo senso, l’abuso è facilitato dallo strumento tecnologico.

Legge 69/2019: la collocazione del reato

L’art. 10 della L. 19-7-2019, n. 69 (cd. Codice rosso) inserisce nel codice penale l’art. 612ter: il cd. delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.

La figura di reato costituisce una delle più rilevanti novità disciplinari dovute al cd. Codice rosso del 2019, provvedimento legislativo di amplissima portata precettiva, la cui denominazione deriva dalla terminologia sanitaria, per alludere ad un percorso preferenziale e d’urgenza per la trattazione dei procedimenti in materia, funzionale alla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, percorso procedurale introdotto proprio dal citato provvedimento.

Il reato in esame è inserito nella L. 69/2019 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Nei primi commenti alla riforma, si è ritenuta poco opportuna la sua collocazione sistematica fra i delitti contro la libertà morale, per tal via inquadrandola nel novero dei delitti lato sensu di minaccia, ancorché, il più delle volte, l’autore del reato agisca, rispetto alla vittima, con finalità diversa da quella minatoria; ne consegue che sarebbe stata più opportuna la sua collocazione in un autonomo titolo, che avrebbe potuto rubricarsi «Tutela della riservatezza sessuale» ed essere inserito dopo i delitti di violenza sessuale e prima dell’attuale Sezione III del Titolo XII.

Il bene giuridico protetto

Secondo la lettera del delitto di «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti» tale delitto sussiste quando: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi in cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio».

Il delitto è sistematicamente collocato nell’ambito dei «Delitti contro la persona», in particolare tra i «delitti contro la morale».

Emerge chiaramente che la nuova norma mira a garantire non solo la libertà morale (come si potrebbe erroneamente ritenere, prima facie, in ragione della collocazione dopo il reato di «atti persecutori» o cd. «stalking», nel titolo XII, sezione III del c.p.), ma soprattutto la privacy sessuale e la reputazione della potenziale vittima.
«Il reato è inserito tra quelli a tutela della libertà morale individuale e si rivolge alla sfera di intimità e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale» (Sez. 5, sent. 14927 del 7-4-2023 (ud. 22-2-2023) rv. 284576-01).

Il nuovo art. 612ter c.p. è, dunque, un reato plurioffensivo: i beni giuridici protetti dalla fattispecie in parola sono la libertà di autodeterminazione dell’individuo – con riferimento alla reputazione e al decoro – la libertà personale e il diritto alla riservatezza della sfera sessuale.

Clausola di riserva e rapporto con altri reati

La disposizione esordisce con l’inciso: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato». Volendo analizzare la lettera e la relativa portata precettiva di tale previsione, appare quanto mai opportuna la clausola di sussidiarietà, collocata nell’incipit della fattispecie, in virtù della quale il delitto è punibile «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Appare evidente la finalità di rendere applicabile la più grave norma incriminatrice dell’estorsione nel caso in cui la diffusione delle immagini o dei video, lungi dall’avere una, sia pur censurabile, finalità vendicativa, sia, invece (in via concorrente o esclusiva) strumentale all’ottenimento di danaro o di altre utilità, facendo leva, quale strumento coercitivo della volontà, proprio sulla minaccia di diffusione del suddetto materiale.

Del tutto escluso è l’assorbimento nei reati di violenza sessuale (artt. 609bis e ss., c.p.), trattandosi di fatti diversi (violenza/diffusione). La diffusione di immagini pedopornografiche (art. 600ter c.p.), invece, è condotta perfettamente sovrapponibile. Tra le due norme incriminatrici, pertanto, vi sarebbe un concorso apparente, che esclude il concorso formale anche in assenza della clausola di riserva. Il nuovo reato, tuttavia, dà rilevanza penale – ancorché limitata dalla procedibilità a querela – alla diffusione di immagini pedopornografiche autoprodotte (cosiddetti selfie) da parte di chi le riceve e poi le inoltra a terzi senza il consenso della persona ritratta. Tale ulteriore diffusione resta fuori dalla portata dell’art. 600ter c.p., che esclude dal proprio campo di applicazione il materiale autoprodotto e cioè realizzato senza «utilizzo» di minori. La clausola di riserva, invece, opererebbe con i reati di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e istigazione al suicidio aggravata dal suicidio (artt. 572, 612bis, 580 c.p.), tutti puniti – i primi due grazie all’innalzamento di pena apportato dalla medesima L. 69/2019 – in modo più severo. La clausola di riserva sembra, dunque, destinata a non avere un esteso campo di applicazione, se non nei casi più gravi, come quello di Tiziana Cantone, con l’effetto – paradossale – di escludere l’applicazione del nuovo reato nei casi più gravi e simili a quello che ne ha ispirato l’introduzione. La clausola non è replicata al comma 2, che prevede un reato autonomo, e conseguentemente deve intendersi valere solo per il reato del primo comma.

Condotte rilevanti: ipotesi di cui al comma 1

La norma tipizza un primo nucleo di condotte:

• la consegna si traduce nel donare qualcosa a qualcuno perché la custodisca e ne abbia cura per un periodo di tempo determinato; la cessione consiste nel donare ad altri qualcosa rinunciando a un possesso o a un godimento;

• l’invio evidenzia il perseguimento delle suddette finalità attraverso la fisica trasmissione dell’oggetto ceduto o consegnato aventi tutte, come comune denominatore, il fatto di tradursi in ipotesi di trasferimento (anche attraverso la rete, ma non solo) delle immagini tra due persone. È, infatti, fenomeno tristemente noto che la vendetta venga posta in essere anche attraverso l’invio dei materiali intimi a soggetti determinati (come il datore di lavoro, familiari, nuovi compagni di vita) nella speranza che da ciò consegua un danno professionale e/o relazionale per la vittima presa di mira dalla condotta illecita. Integra un «invio» rilevante ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 612ter c.p. quello che venga effettuato «verso chiunque» purché senza il consenso della persona ritratta, da parte di chi, «in qualsiasi modo» – fatte salve le condotte che rientrano nella sfera di operatività del primo comma della disposizione – abbia acquisito l’immagine o il video a contenuto sessualmente esplicito. Il reato, infatti, è configurabile come istantaneo, secondo la lettera normativa, e si consuma nel momento in cui avviene il primo invio dei contenuti sessualmente espliciti, non importa se diretto a familiari della vittima, che possano, eventualmente, avere interesse a non alimentare una successiva diffusione (Sez. 5, sent. 14927 del 7-4-2023 (ud. 22-2-2023 ) rv. 284576-01);

• la pubblicazione, ricorre nei casi in cui immagini o video vengano inseriti su siti internet, di natura pornografica, social network e su qualunque altra piattaforma che operi in rete;

• la diffusione si ritiene identificabile nella distribuzione senza intermediari ad un’ampia platea di destinatari (ne sono classici esempi le chat di messaggistica istantanea o le mailing list).

L’oggetto delle condotte

Costituiscono oggetto comune a tutte le anzidette condotte illecite, le tipizzate «immagini o video a contenuto sessualmente esplicito». Orbene, in uno dei passaggi parlamentari del provvedimento introduttivo di tale fattispecie, si pensò di corredarne la figura criminosa con la relativa nozione, prevedendosi che per «immagini o video privati sessualmente espliciti» dovesse intendersi «ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di soggetti consenzienti, coinvolti in attività sessuali, ovvero qualunque rappresentazione degli organi sessuali per scopi sessuali, realizzati, acquisiti ovvero comunque detenuti in occasione di rapporti od incontri anche occasionali». Pur se l’anzidetta nozione appare illuminante sulla portata oggettiva della fattispecie in esame, si ritiene opportuna la scelta operata dal legislatore del 2019 di affidare all’esegesi giudiziaria la concreta definizione del concetto di «sessualmente esplicito», evitando difficoltà applicative (segnalate in dottrina nell’esperienza giurisprudenziale britannica, ove già presente è una fattispecie ad hoc).

La nuova figura di reato richiede che le immagini divulgate abbiano una «contenuto sessualmente esplicito». Questo è senza dubbio l’elemento della fattispecie dai contorni più sfumati. La giurisprudenza ha già cercato di definirlo con riferimento all’art. 600ter c.p., includendo anche la esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica o anche della semplice nudità, se idonea a eccitare le pulsioni erotiche del fruitore. Si tratta evidentemente di criteri molto soggettivi poiché la lascivia, come la bellezza, è nell’occhio di chi guarda. Di difficile valutazione è, per esempio, il nudo artistico, nel quale è impossibile separare l’aspetto erotico da quello artistico. Escluso dall’applicazione della nuova norma è il fenomeno della raccolta, di solito nel deep web e cioè in pagine non accessibili dai comuni motori di ricerca, di immagini neutre, prese anche da social network o in pubblico, di persone ritenute attraenti per caratteristiche fisiche o atteggiamenti. Questo fenomeno è molto pericoloso perché spesso le immagini sono corredate, oltre che da commenti denigratori, da dati personali (nomi, indirizzi e numeri di telefono) che permettono di identificare e rintracciare la persona. Tali immagini, essendo del tutto prive di riferimenti alla sessualità, certamente non ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 612ter c.p.

Oggetto delle condotte incriminate, sono immagini e video non solo «sessualmente espliciti» ma anche «destinati a rimanere privati». In una prima pronuncia di merito, tale requisito è stato interpretato in modo stringente, mettendo di fatto in dubbio l’applicazione del nuovo delitto in relazione a tutte le ipotesi nelle quali le immagini non sono create nell’intimità, privata, di un contesto di coppia.

La giurisprudenza della S.C. con una prima sentenza ha ritenuto che «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 612ter c.p., la diffusione illecita di contenuti sessualmente espliciti può avere ad oggetto immagini o video che ritraggano atti sessuali ovvero organi genitali ovvero anche altre parti erogene del corpo umano, come i seni o i glutei, nudi o in condizioni e contesto tali da evocare la sessualità» (Cass. n. 14927 del 7-4-2023).

In una successiva pronuncia la medesima Corte, proprio rifacendosi ai principi ivi stabiliti, ha ritenuto «sessualmente espliciti» alcuni video nei quali la denunciante era raffigurata «in biancheria intima» (Cass. n. 32602/2023).

Anche in dottrina, si è ritenuto che «sarebbe eccessivamente limitante circoscrivere la punibilità esclusivamente alle immagini che ritraggono pratiche sessuali in senso stretto (rapporto sessuale o autoerotismo). Appartengono al fenomeno in commento e risulterebbero, a nostro avviso, idonee ad integrare la fattispecie e a offendere i beni giuridici tutelati anche rappresentazioni erotiche di nudità focalizzate sugli organi genitali, sul seno o sulle natiche» (M. Bianchi, L’incriminazione del «revenge porn») .

Presupposto comune alle condotte del primo comma è che il soggetto attivo sia il medesimo che abbia realizzato il relativo materiale (cioè scattato le foto o girato i video) o lo abbia sottratto (più o meno fraudolentemente).

Deve, inoltre, trattarsi di materiali destinati a rimanere privati (la loro natura sessuale non costituisce, dunque, l’unico requisito richiesto con riguardo alle immagini e ai video, richiedendosi, altresì, che siano stati creati in un contesto intimo e riservato, nel quale sarebbero dovuti rimanere se non fosse stata posta in essere una delle condotte tipiche) e, ovviamente, «senza il consenso delle persone rappresentate», cioè in assenza del consenso espresso liberamente prestato e non viziato (da errore, violenza o dolo), dell’avente diritto.

La presenza del consenso ovviamente determinerà la persona offesa a non sporgere querela, mentre un consenso tardivo potrà portare ad una remissione di querela.

Nei casi di procedibilità d’ufficio il consenso avrà un peso ancora maggiore determinando il venir meno ab origine del reato.

Elemento soggettivo (comma 1)

L’elemento soggettivo richiesto ai fini dell’integrazione del reato di cui al primo comma è il dolo generico: l’agente agisce rappresentandosi e volendo realizzare la condotta descritta dalla norma. Da tale assunto risulta ictu oculi fuorviante e limitante l’utilizzo del neologismo «revenge porn» ai fini di una corretta definizione ed identificazione della condotta tipizzata dalla norma di cui all’art. 612ter c.p., in quanto non è specificato che il fine perseguito dall’agente sia (solo) la vendetta, essendo sufficiente l’intenzionalità di realizzare l’antigiuridica condotta descritta. La condotta, difatti, è sanzionata indipendentemente dal perseguimento di un determinato fine. Tuttavia, come si è detto, ad oggi la locuzione racchiude una molteplicità di condotte penalmente rilevanti, che trascendono dalla specifica volontà vendicativa.

Condotte rilevanti: ipotesi di cui al comma 2

Il comma 2, invece, estende la punibilità in capo ai «secondi distributori», ossia coloro che non erano originariamente nella disponibilità del materiale, non avendolo realizzato o sottratto materialmente, ma che hanno collaborato alla sua divulgazione.

Il capoverso della norma ha una evidente funzione complementare rispetto alle tutele predisposte dal comma precedente (funzione evidenziata dalla scelta di riservarne medesima risposta sanzionatoria, con conseguente analoga considerazione, sul piano del grado di disvalore penale). Trattasi, in particolare, di previsione concepita per sanzionare i cd. «distributori di secondo livello», coloro cioè che, ricevute le immagini (da colui che le ha prodotte, nel senso anzidetto, sulla base delle condotte di cessione, invio o consegna di cui sopra, ma anche da altri soggetti), ovvero avendole comunque acquisite (ad esempio, scaricandole dalla rete), pone in essere una o più delle condotte traslative (le medesime descritte analizzando la fattispecie di cui al primo comma, a cui si rinvia) per tal via rendendo tali video o immagini, come si dice in gergo tecnico, «virali».

Il fondamento politico-criminale di tale disposto riposa nella presa d’atto, da parte del legislatore, della circostanza che spesso è la stessa vittima dell’illecita cessione ad aver consegnato le immagini o i video che la riguardano all’autore del reato e che, spesso, la loro diffusione avviene da parte di soggetto diverso da chi le immagini o i video ha realizzato o sottratto. Si è, dunque, inteso sanzionare, per un verso, la condotta di chi sia venuto in possesso dei suddetti materiali senza averli realizzati personalmente o, comunque, in assenza di sottrazione e, per altro verso, quella, altrettanto esecrabile, dei «condivisori» delle immagini illecitamente diffuse dall’autore del reato. In tal caso è, tuttavia, richiesto che il reo agisca al fine specifico di recare nocumento alla persona rappresentata nelle immagini o nei video diffusi: si esige, in altri termini, che la condotta del soggetto attivo sia animata dal dolo specifico, fattore che restringe fortemente l’area della rilevanza penale di tal genere di comportamenti, confinando nell’area del penalmente irrilevante condotte non meno censurabili, quali quelle di chi, senza il consenso della vittima, ne diffonda immagini o video di contenuto sessualmente esplicito per farsene vanto o per ragioni ludiche. Del resto, in altri ordinamenti, come quello inglese o californiano, in cui già esistono da anni tali disposizioni, e le cui norme richiamano la finalità vendicativa, richiedendo per la configurazione del reato un equivalente del nostro dolo specifico incentrato sulla volontà di causare un severo stress alla vittima, tale struttura della fattispecie ha provocato forti limitazioni applicative alla medesima.

Elemento soggettivo (comma 2)

A differenza del comma 1, il secondo richiede il dolo specifico, che emerge dall’inciso «al fine di creare nocumento» alla persona offesa. La norma indica, dunque, il fine determinato perseguito dall’agente affinché la condotta astrattamente tipizzata sia integrata. Si precisa che il «nocumento» secondo la giurisprudenza di legittimità è «un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale e non, cagionato sia alla persona alla quale i dati illecitamente trattatisi riferiscono sia a terzi quale conseguenza della condotta illecita» (Cass. pen., sez. III, sent. 23-11-2016, n. 15221).

Il legislatore non ha ritenuto sufficiente, per dare rilevanza penale alla condotta, la mera consapevolezza di recare nocumento (dolo diretto, che rientra nel dolo generico), ma richiede il dolo specifico e cioè l’intenzione di danneggiare la persona ritratta. Il dolo specifico mancherà in tutti i casi, che saranno i più frequenti, in cui chi riceve e diffonde le immagini non conosce la persona ritratta oppure, anche conoscendola, le invia a sua volta solo perché le ritiene interessanti. Il dolo specifico restringe molto l’ambito di applicazione del comma 2, creando uno squilibrio nella risposta penale tra le due condotte.

Consumazione del reato

Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, che ha natura di reato istantaneo, si perfeziona nel momento in cui avviene il primo invio a un destinatario, indipendentemente dal rapporto esistente tra quest’ultimo e la persona ritratta (sussiste una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la condanna dell’imputato che, senza il consenso della vittima, aveva inviato immagini ritraenti la «ex» amante in situazioni sessualmente esplicite ai soli familiari della stessa, interessati a non alimentarne la successiva diffusione a terzi estranei: Sez. 5, sent. 14927 del 7-4-2023).

Annota la Corte che con il primo invio, la diffusione è già avvenuta, per quanto stabilito dalla disposizione incriminatrice, che non fa questione di reiterazione della condotta diffusiva né «quantifica» o qualifica in alcun modo la diffusione lesiva del bene protetto; il reato è inserito tra quelli a tutela della libertà morale individuale e si rivolge alla sfera di intimità personale e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale.

Le circostanze aggravanti: ipotesi di cui al comma 3

Il comma 3 prevede che la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

Trattasi di circostanze comuni ad effetto comune che comportano un aumento di pena fino ad un terzo (ex art. 64, comma 1, c.p.).

In particolare, in unità di intenti politico criminali con la legge «anti-stalking», anche in questo caso la maggior carica di disvalore penale è stata riconosciuta alla condotta tipizzata, ove posta in essere in presenza di un rapporto sentimentale che, pregresso o ancora presente all’epoca del fatto (in ciò la norma ha beneficiato, nel suo tenore letterale, della evoluzione normativa, in senso «estensivo», concernente il delitto di stalking), legava l’autore del reato e la persona offesa (trattasi dei casi di revenge porn più diffusi e lesivi, oltre che rientranti fra le ipotesi di violenza di genere, secondo la definizione fornita dalla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25-10-2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, secondo la quale, nella relativa nozione va ricompresa «la violenza nelle relazioni strette»). Si è osservato, peraltro, che, ferma l’indubbia opportunità di tale disposizione, non può non rilevarsi che la sua concreta formulazione debba ritenersi carente di tipizzazione, a causa della mancata inclusione, nel novero dei soggetti attivi, della parte di un’unione civile.

A maggiori critiche è stata sottoposta, fin dai suoi esordi, l’ulteriore configurazione aggravata, derivante dall’uso di strumenti informatici o telematici. Si afferma, fra l’altro, che gli strumenti telematici presuppongano quelli informatici, dunque non possono porsi come alternativi, ma soprattutto che, mentre l’analoga configurazione aggravata relativa allo stalking ha più senso, in quanto gli atti persecutori possono anche prescindere dall’impiego di tali tecnologie strumentali, il disvalore penale del «revenge porn» si incardina in gran parte proprio sull’uso delle tecnologie digitali, che lo rendono al contempo estremamente semplice da realizzare (specie con le più moderne evoluzioni tecnologiche del settore telematico) e particolarmente lesivo nelle conseguenze. È pur vero che sussistono ipotesi di divulgazione delle immagini che non passano attraverso Internet o mediante strumenti informatici (come testimonia il fatto che il «revenge porn» esisteva ancor prima dell’affermarsi e del diffondersi delle tecnologie informatiche), ma resta il fatto che la fattispecie aggravata rischia di trovare una applicazione enormemente superiore di quella «base», destinata a restare meramente residuale.

Le circostanze aggravanti di cui al comma 4

Il citato comma, infine, prevede una circostanza aggravante ad effetto speciale, funzionale a predisporre una tutela «rafforzata» nei confronti di taluni soggetti in condizione di oggettiva «fragilità», in primis le persone in condizione di inferiorità fisica o psichica. L’opportunità di tale opzione normativa viene evidenziata da coloro che rilevano, per esperienza, la maggior facilità con la quale le persone nelle suddette condizioni possano esser convinte a creare materiali intimi e ad inviarli, previo inganno sulle finalità dell’invio. Per converso, si censura (in ciò inopportunamente discostandosi dall’analoga previsione concernente il delitto di atti persecutori) la mancata inclusione, fra i soggetti meritevoli di speciale tutela, dei minori, pur se, si afferma, ciò potrebbe trovare fondamento nel fatto che il legislatore abbia ritenuto adeguatamente protettiva la preesistente normativa di contrasto alla pedopornografia, a tutela degli adolescenti, senza dubbio la categoria potenzialmente più esposta al «revenge porn» (si ricordi, in proposito, l’opportuna clausola di sussidiarietà posta nell’incipit della previsione, diretta a captare l’applicabilità di quanto evidentemente si sovrappone alle condotte tipizzate dall’art. 600ter c.p.).

Altra categoria cui si riserva una speciale protezione sono le donne in stato di gravidanza, si ritiene, sul presupposto che siano oggettivamente da considerarsi, per la loro fragilità, in condizioni assimilabili alla «minorata difesa». Si afferma, peraltro, come non sia chiaro nella previsione se lo stato di gravidanza debba sussistere al momento della creazione dei materiali incriminati ovvero nel momento della loro condivisione, in modo da produrre stress psicologico alla donna. Inoltre, si afferma, mentre negli atti persecutori il reo interagisce con la vittima, per cui si rende conto dello stato di gravidanza, il delitto in esame può giungere a consumazione anche a distanza di tempo, quando il reo potrebbe non essere a conoscenza delle condizioni della vittima.

Procedibilità del revenge porn

L’ultimo comma della previsione in esame, infine, è dedicato alle regole di procedibilità. Trattasi di disposto anch’esso costruito in unità di intenti politico-criminali col delitto di «atti persecutori» (il cui corrispondente precetto, se si eccettua per l’ipotesi di querela irrevocabile, è sostanzialmente sovrapponibile). In particolare, si prevede la ordinaria procedibilità a querela degli illeciti e la proponibilità della querela nel termine di sei mesi (si noti, peraltro, che il medesimo provvedimento ha adottato, come si vedrà, diversa opzione normativa, in relazione ai delitti di violenza sessuale, ex art. 609septies, raddoppiando l’originario termine di sei mesi e portandolo a dodici), pur disponendosi, per un verso, che la sua remissione possa avvenire solo in sede processuale, allo scopo di garantire che l’esercizio della relativa facoltà avvenga in presenza e sotto vigilanza giudiziaria e, per altro verso, che si proceda, invece, d’ufficio in presenza dell’aggravante a effetto speciale di cui al comma 4 (diffusione delle immagini o dei video a contenuto sessualmente esplicito in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o di donna in stato di gravidanza) .

I casi di cui al quarto comma sono quelli che integrano due aggravanti speciali: quando la vittima è «persona in condizione di inferiorità fisica o psichica» o «una donna in stato di gravidanza». La ratio del primo caso è quella di tutelare una persona nei confronti della quale il reato è particolarmente odioso e per la quale è più difficile manifestare l’istanza punitiva. Anche nel caso della gravidanza sembra tenere conto del particolare stato di fragilità della persona offesa. Essendo l’aggravante elemento accessorio al fatto-diffusione, infatti, lo stato di gravidanza deve esistere al momento della diffusione e non a quello delle riprese.

Ulteriore ipotesi di procedibilità di ufficio ricorre quando l’illecito sia connesso con altro procedibile di ufficio.

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