Fondo TPL: legittimi i criteri di riparto tra regioni Fondo TPL: la Corte Costituzionale ritiene legittimi i criteri di riparto fra le regioni adottati in attesa della definizione di standard

Fondo TPL: criteri di riparto

Fondo TPL: sono legittimi i criteri di riparto tra le regioni. Così la Corte costituzionale, con la sentenza n. 133-2024, ha respinto le censure di illegittimità costituzionale promosse da tre Regioni (Piemonte, Veneto e Campania) nei confronti dell’art. 17, comma 1, del decreto-legge n. 104 del 2023, convertito nella legge n. 136 del 2023.

Tale disposizione è intervenuta a modificare ulteriormente i criteri di riparto fra le Regioni delle risorse del “Fondo per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario” (Fondo TPL), che erano stati introdotti dal decreto-legge n. 176 del 2022, convertito nella legge n. 6 del 2023, per superare il sistema incentrato sulla valorizzazione della spesa in precedenza sostenuta dalle singole Regioni per l’erogazione dei servizi in questione (cosiddetta “spesa storica”).

Il decreto legge 176/2022

A tal fine, nel decreto-legge n. 176 del 2022 si era disposto che le risorse stanziate dallo Stato sarebbero state assegnate alle Regioni, per una quota pari al 50 per cento, sulla base dei “costi standard” e, per la restante quota, sulla base dei “livelli adeguati dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale” (LAS), che avrebbero dovuto essere definiti con decreto interministeriale, previa intesa con Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata.

La mancata adozione di tale decreto interministeriale “aveva reso urgente l’assunzione di un criterio correttivo del precedente sistema e, a tale scopo, la norma impugnata ha previsto: a) una applicazione immediata, ma solo parziale, del criterio del ‘costo standard’, computato però considerando il complesso dei servizi di trasporto pubblico locale erogati sul territorio di ciascuna Regione (costo standard totale); b) un regime transitorio volto a garantire, data la mancata adozione dei LAS, un’assegnazione di risorse non inferiore a quella risultante dalla ripartizione del fondo per l’anno 2020 (c.d. ‘clausola di garanzia’)”.

Le qlc

Le Regioni ricorrenti censurano le intervenute modifiche dei criteri di riparto in quanto le discriminerebbero nel finanziamento del servizio TPL, privilegiando quelle regioni che maggiormente sovvenzionano con risorse proprie i servizi di trasporto pubblico locale, con l’effetto di impedire alle prime, menomate nella loro autonomia finanziaria, l’erogazione di tutte le prestazioni da esse deliberate, in un ambito affidato alla competenza legislativa residuale regionale.

Sarebbero perciò violati, si legge, “gli artt. 117, 118 e 119, nonché, per i conseguenti gravi disagi per l’utenza e per l’impossibilità di offrire adeguata copertura alla spesa a suo tempo deliberata, gli artt. 97 e 81 della Costituzione”.

La decisione

La Corte costituzionale ha ritenuto non fondate tutte le censure. L’evoluzione della normativa – ancora non “a regime” in attesa della definizione dei LAS – e la successione dei criteri di riparto del Fondo rende non evidente la lesione prospettata dalle Regioni ricorrenti che, infatti, non hanno fornito documentazione di alcun genere comprovante l’impossibilità dello svolgimento delle funzioni per effetto della disposizione statale impugnata. Tuttavia, “quanto al finanziamento dei servizi di trasporto pubblico locale – la Corte ha auspicato che – si porti al più presto a conclusione il complesso iter di transizione ai costi e fabbisogni standard, prefigurato già dalla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale”.

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spesa sanitaria regioni

Spesa sanitaria: le regioni possono andare oltre i limiti nazionali? La Consulta dichiara che la Sardegna può incrementare la spesa per le prestazioni sanitarie anche oltre i limiti nazionali in quanto finanzia integralmente il proprio SSN

Spesa sanitaria oltre i limiti nazionali

La Regione autonoma Sardegna può incrementare la spesa per prestazioni sanitarie anche oltre i limiti imposti dalle leggi nazionali, in quanto finanzia integralmente il proprio SSN. Così la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 141-2024, dichiarando la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 56 della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 e dell’art. 5, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 21 del 2023.

Con tali disposizioni la Regione autonoma Sardegna, al fine di garantire i livelli essenziali di assistenza e ridurre i tempi di attesa, ha autorizzato l’incremento della spesa per l’acquisto di prestazioni sanitarie eccedendo i limiti previsti dalla normativa nazionale. Le disposizioni sono state ritenute dal giudice delle leggi costituzionalmente legittime.

SSN integralmente finanziato

Difatti, con riguardo ai vincoli di finanza pubblica recati dalla legislazione statale, seppure la Corte sia costante nel ritenere che essi si applicano, di regola, anche ai soggetti ad autonomia speciale e che i tetti di spesa costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, nel caso di specie, non si utilizzano per la Regione autonoma Sardegna che provvede integralmente al finanziamento del proprio servizio sanitario regionale.

Il finanziamento integrale degli oneri del servizio sanitario regionale a carico del bilancio sardo e l’assenza di condizioni che possano far ritenere di non poter applicare il predetto principio (ossia la sottoposizione a un piano di rientro dal disavanzo finanziario in materia sanitaria o la compromissione dei livelli essenziali delle prestazioni) comporta che lo Stato non possa intervenire con norme di coordinamento finanziario che incidano sulla competenza regionale nella allocazione della spesa sanitaria.

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esclusione responsabilità agenti pubblici

Legittima temporanea esclusione responsabilità agenti pubblici Per la Consulta, è legittima la temporanea esclusione della responsabilità amministrativa per colpa grave fino al 31 dicembre 2024

Responsabilità amministrativa per colpa grave

E’ legittima la temporanea esclusione della responsabilità per gli agenti pubblici, introdotta dal legislatore per le sole condotte commissive e fino al 31 dicembre 2024. Il regime ordinario invece “non potrà limitare al solo dolo la responsabilità amministrativa, per la quale, tuttavia, la Corte auspica una complessiva riforma”. Così ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 132/2024, con cui sono state dichiarate in parte inammissibili e per la restante parte non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, sollevate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania.

La disposizione censurata

La disposizione censurata, per come prorogata, prevede, sino al 31 dicembre 2024, per le condotte commissive degli agenti pubblici una temporanea limitazione della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi dolose.

La Corte dei conti lamentava, in primo luogo, la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., perché tale limitazione della responsabilità si tradurrebbe in un non consentito allontanamento dal principio generale dell’imputabilità a titolo di dolo o colpa grave.

Due esigenze fondamentali

Nel respingere la questione, la Corte costituzionale ha rammentato che “la disciplina della responsabilità amministrativa va inquadrata nella logica della ripartizione del rischio dell’attività tra l’apparato e l’agente pubblico, al fine di trovare un giusto punto di equilibrio. Per individuare quest’ultimo, il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità ad esso spettante, deve tenere conto di due esigenze fondamentali: da un lato, quella di tenere ferma la funzione deterrente della responsabilità, al fine di scoraggiare i comportamenti dei funzionari che pregiudichino il buon andamento della pubblica amministrazione e gli interessi degli amministrati; dall’altro, quella di evitare che il rischio dell’attività amministrativa sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento”.

Nella ricerca di tale punto di equilibrio, non può prescindersi dalla stretta correlazione che esiste tra il sistema della responsabilità amministrativa e il vigente modello di amministrazione.

No alla limitazione a regime

Ciò premesso in generale, la Corte costituzionale ha chiarito che, a regime, non è immaginabile una disciplina normativa che limiti la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo, con esclusione della colpa grave, perché in tal modo i comportamenti macroscopicamente negligenti non sarebbero scoraggiati e, pertanto, la funzione deterrente della responsabilità amministrativa ne sarebbe irrimediabilmente indebolita.

Tuttavia, “una siffatta limitazione – ha proseguito il giudice delle leggi – non potrebbe ritenersi irragionevole ove riguardi esclusivamente un numero circoscritto di agenti pubblici o specifiche attività amministrative, allorché esse presentino, per le loro caratteristiche intrinseche, un grado di rischio di danno talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione amministrativa”.

Nemmeno – ed è questo il caso di specie – “tale limitazione può considerarsi irragionevole ove si radichi nella particolarità di uno specifico contesto e sia volta ad assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale, ed abbia carattere provvisorio”.

La ratio delle proroghe

La disposizione censurata, infatti, si giustificava in relazione al peculiarissimo contesto economico e sociale in cui l’emergenza Covid aveva determinato la prolungata chiusura delle attività produttive, con danni enormi per l’economia nazionale e ovvie ricadute negative sulla stessa coesione sociale e la tutela dei diritti e di interessi vitali per la società. Per superare la crisi e rimettere in moto l’economia, il legislatore, “non irragionevolmente, ha ritenuto indispensabile che l’amministrazione pubblica operasse senza remore e non fosse, al contrario, a causa della sua inerzia, un fattore di ostacolo alla ripresa economica”.

Le successive proroghe, invece, sono connesse all’inderogabile esigenza di garantire l’attuazione del PNRR e la conseguente ripresa di un sentiero di crescita economica sostenibile, oltre che il superamento di alcuni divari economici, sociali e di genere. La Corte costituzionale ha affermato che, nel valutare la proporzionalità dell’intervento legislativo, non può prescindersi dal rilievo che la disposizione censurata origina da un contesto eccezionale, ha natura temporanea ed ha comunque un oggetto delimitato, riguardando solo le condotte commissive e non quelle “inerti” ed “omissive”.

Riforma della responsabilità amministrativa

Da ultimo, la Corte costituzionale, in vista dell’imminente scadenza temporale dell’ultima proroga della disposizione censurata, ha inteso sollecitare il legislatore “al varo di una complessiva riforma della responsabilità amministrativa, al fine di ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le strutturali trasformazioni del modello di amministrazione e del contesto istituzionale, giuridico e sociale in cui essa opera”.

Leggi anche Il procedimento amministrativo

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diritti spiaggia cosa sapere

Diritti in spiaggia: cosa c’è da sapere Il manuale pubblicato dall'Unione Nazionale Consumatori contiene circa 50 domande e risposte sui diritti in spiaggia

Diritti in spiaggia, cosa è lecito e cosa no

Portare il cane in spiaggia, accedere alla battigia del lido privato, o ancora portarsi il cibo da casa in uno stabilimento balneare. Sono alcune delle domande più frequenti e attuali con l’approssimarsi delle agognate ferie estive, alle quali ha cercato di dare risposta l’Unione Nazionale Consumatori con un e-book ad hoc Diritti in spiaggia: le risposte alle domande più frequenti contenente circa 50 domande e risposte (a cura di Massimiliano Dona) su cosa è lecito e cosa no sulle spiagge nostrane. 

Vediamo i punti più importanti:

Accesso al mare negli stabilimenti balneari

L’accesso al mare è libero e gratuito e gli stabilimenti balneari dovrebbero consentire l’accesso e il transito per il raggiungimento della battigia anche al fine della balneazione. A prevederlo è l’art. 11 della legge n. 217 del 2011 che prevede “il diritto libero e gratuito di accesso e di fruizione della battigia, anche ai fini di balneazione“, mentre la legge n. 296 del 2006 stabilisce “l’obbligo per i titolari delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione“.

Dunque, spiega l’UNC, se qualche gestore furbetto prova a far pagare l’accesso ai bagnanti che vogliono raggiungere la riva, si tratta di un vero e proprio abuso, visto che la spiaggia è un bene pubblico e impedirne l’accesso è una violazione di legge. In tal caso, si consiglia di chiamare i vigili e chiedergli di intervenire sul posto.

Le cose cambiano ovviamente se si usufruisce dei servizi messi a disposizione dallo stabilimento (ombrellone, sdraio, ecc.). In tal caso, è corretto che il gestore pretenda il pagamento.

Le ordinanze dei Comuni sui diritti in spiaggia

La materia dell’accesso alla battigia è regolata anche da Regioni e Comuni. La legge n. 296 del 27 dicembre 2006, all’art. 1 comma 254, spiega l’ebook dell’UNC, prevede che siano le Regioni a dover “individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili” e a “individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari al fine di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione“.

Molte ordinanze dei comuni, poi, prevedono il divieto di occupare con ombrelloni, sdraio o teli mare, la fascia di 5 metri dalla battigia ed il divieto di permanenza in tale spazio, poiché deve restare a disposizione per i mezzi di soccorso. In tal caso, il divieto vale per tutti, anche per i gestori dello stabilimento.

Ombrellone sulla spiaggia

La prassi di lasciare l’ombrellone in spiaggia (parliamo di spiaggia libera) assicurandosi il posto migliore per i giorni successivi è scorretta. Si tratta infatti di un’occupazione illegale del demanio pubblico, per cui non possono essere lasciati oggetti per un tempo prolungato.

Giochi sulla spiaggia

Altra nota dolente riguarda la possibilità di giocare sulla spiaggia, ad esempio a pallone. Non esiste una normativa nazionale che regoli questo aspetto, per cui, avverte l’Unione, è sempre bene informarsi su eventuali divieti imposti in questo senso dalla Capitaneria di Porto o dal Comune. Sempre bene comunque usare il “buon senso” evitando di arrecare danno o disturbo agli altri bagnanti.

Amici a quattro zampe al mare

Per quanto riguarda gli amici a quattro zampe non esiste una legge nazionale che ne regolamenta l’accesso in spiaggia, per cui, spiega ancora l’UNC, “in assenza di espliciti divieti regionali, comunali o delle autorità marittime valgono le regole generali per i luoghi pubblici che prevedono che possano girare se sono tenuti al guinzaglio o se hanno la museruola”. Resta fermo che il titolare della concessione su una spiaggia può vietarne l’accesso o al contrario, potrebbe chiedere al comune l’autorizzazione per consentirne la presenza o prevedere delle aree ad hoc.

Cibo in spiaggia

Anche mangiare sulla spiaggia è un’attività consentita nel rispetto dell’ambiente. Ovviamente, è severamente vietato lasciare oggetti di plastica o comunque inquinanti (come piatti) mentre lasciare gli avanzi di cibo, seppur poco educato, rincara l’Unione, è una pratica che “non nuoce all’ecosistema essendo il cibo un materiale completamente biodegradabile”.

Analogo il discorso che riguarda il portare cibo in uno stabilimento balneare. Non può essere vietato, purchè si rispetti il decoro della spiaggia, quindi al bando senz’altro i pic-nic con tavola imbandita o barbecue ma sicuramente nessuno può impedire di portare panini, bibite o biscotti (ecc.).

Fumare al mare

Quanto al fumo, infine, non esistendo una legge che vieta esplicitamente il fumare all’aperto deve ritenersi consentito. tuttavia, segnala l’UNC vi sono molte amministrazioni locali che stanno approvando divieti ad hoc sul fumo in spiaggia. Ovviamente, rimane sempre vietato abbandonare i mozziconi di sigaretta!

giurista risponde

Alloggio di edilizia residenziale pubblica occupato sine titulo Sussiste giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia attinente alla pretesa della P.A. al rilascio dell’alloggio occupato sine titulo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, sussiste giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia attinente alla pretesa della P.A. al rilascio dell’alloggio occupato sine titulo. – T.A.R. Calabria, sez. I, ord. 16 aprile 2024, n. 284.

Come richiamato nel più recente indirizzo del Giudice della giurisdizione (Cass., Sez. Un., ord. 15 gennaio 2021, n. 621) da ultimo recepito anche dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. V, 18 luglio 2022, n. 6103, e 1° febbraio 2022, n. 684), “nella materia degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e ordinario trova il suo criterio distintivo nell’essere la controversia relativa alla fase antecedente o successiva al provvedimento di assegnazione dell’alloggio, che segna il momento a partire dal quale l’operare della pubblica amministrazione non è più riconducibile all’esercizio di pubblici poteri, ma ricade invece nell’ambito di un rapporto paritetico”.

Pertanto, vi è giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di controversia avente ad oggetto la legittimità del rifiuto opposto dalla P.A. all’istanza di assegnazione, a titolo di regolarizzazione, di un alloggio già occupato dal richiedente, in quanto relativa alla fase iniziale del procedimento riconducibile all’esercizio di pubblici poteri. Invece, la controversia introdotta da chi si opponga ad un provvedimento della P.A. di rilascio di un immobile di edilizia residenziale pubblica occupato senza titolo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, essendo contestato il diritto di agire esecutivamente e configurandosi l’ordine di rilascio come un atto imposto dalla legge e non come esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione, la cui concreta applicazione richieda, di volta in volta, una valutazione del pubblico interesse; e ciò vale anche qualora sia dedotta l’illegittimità di provvedimenti amministrativi (diffida a rilasciare l’alloggio e successivo ordine di sgombero), dei quali è eventualmente possibile la disapplicazione da parte del giudice, chiamato a statuire sull’esistenza delle condizioni richieste dalla legge per dare corso forzato al rilascio del bene.

Ad ogni modo, spetta sempre al giudice ordinario “la controversia sul rilascio dell’immobile di edilizia residenziale pubblica a seguito di occupazione abusiva o senza titolo anche quando l’interessato per paralizzare la pretesa di rilascio abbia allegato di possedere i requisiti per l’assegnazione di un alloggio e di avere diritto a subentrare all’originaria assegnataria nel godimento dell’alloggio, collocandosi la vicenda al di fuori di un procedimento amministrativo di assegnazione cui l’occupante abbia partecipato come titolare di un legittimo interesse pretensivo ad essere utilmente collocato nella relativa graduatoria; si tratta, in altri termini, di una controversia che si svolge in un ambito puramente paritetico, atteso che il subentro nell’assegnazione, per un verso, discende direttamente dalla previsione legislativa in presenza di determinate condizioni, il cui accertamento non implica una valutazione discrezionale da parte della P.A. Per l’altro verso, esso costituisce una possibile evoluzione del rapporto sorto in esito all’assegnazione e non già l’instaurazione di uno nuovo e diverso; ciò che comprova che la controversia attiene alla fase successiva al provvedimento di assegnazione dell’alloggio”.

*Contributo in tema di “Alloggio di edilizia residenziale pubblica occupato sine titulo”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Abusi edilizi: la doppia conformità si applica in tutta Italia La Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge della provincia autonoma di Trento chiarendo che il requisito della doppia conformità trova applicazione anche alle regioni a statuto speciale

Abusi edilizi e doppia conformità

Abusi edilizi: la doppia conformità si applica in tutta Italia. “Il requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia – infatti – trova applicazione anche alle regioni a statuto speciale, a tutela dell’uniformità delle condizioni per ricondurre a legittimità gli abusi edilizi”. Così la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 125-2024, depositata oggi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 135, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Trento 4 marzo 2008, n. 1 (Pianificazione urbanistica e governo del territorio), per contrasto con il requisito della cosiddetta “doppia conformità”, sancito dall’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).

Requisito della doppia conformità

In base a tale requisito, il permesso di costruire in sanatoria si può ottenere se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.

La Corte ha ribadito che il requisito della “doppia conformità” riveste un’importanza cruciale nell’ordinamento italiano, mirando ad assicurare, “sull’intero territorio nazionale, l’uniformità delle condizioni per ricondurre a legittimità gli abusi edilizi: ciò a tutela dell’effettività della disciplina urbanistica ed edilizia e, quindi, indipendentemente dalla concreta estensione del fenomeno dell’abusivismo nei singoli contesti territoriali”.

Doppia conformità in tutta Italia

In tal senso, ha proseguito la Corte, “tale requisito deve trovare applicazione sia in relazione alle regioni a statuto ordinario (costituendo un principio fondamentale della materia “governo del territorio”), sia in relazione alle regioni a statuto speciale (trattandosi di una norma fondamentale di riforma economico-sociale)”.

Decreto Salva-casa

Anche alla luce delle recenti modifiche di semplificazione della disciplina statale apportate dal Salva-casa, il decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica), la Corte ha ribadito che “spetta comunque allo Stato il compito di stabilire, a tutela dell’effettività della disciplina urbanistica ed edilizia su tutto il territorio nazionale, i casi in cui il requisito della ‘doppia conformità’ debba trovare necessaria applicazione ai fini del rilascio del permesso in sanatoria, nonché i casi in cui possano ammettersi circoscritte limitazioni alla sua concreta operatività”.

Leggi anche Decreto Salva-casa: cosa prevede

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ordine demolizione opere accessorie

Ordine di demolizione: comprende anche le opere accessorie La Cassazione rammenta che l'ordine di demolizione si riferisce all'intera opera, ivi comprese quelle accessorie

Ordine demolizione opere accessorie

L’ordine di demolizione comprende anche le opere accessorie, in quanto riferito a tutte le opere complessivamente e unitariamente intese. Così la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 24066-2024.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Napoli respingeva l’istanza di sospensione/revoca dell’ordine di demolizione di alcune opere abusive. Il ricorrente adiva quindi il Palazzaccio, a mezzo del difensore di fiducia, lamentando che l’ordine stesso avrebbe causato la demolizione di più di quanto previsto nelle sentenze di condanna, ossia, nello specifico del fabbricato sottostante, in quanto non era mai stato oggetto di accertamento nè delle sentenze stesse che riguardavano un muro di contenimento in cemento armato, la realizzazione di un manufatto di circa 155 metri quadrati e la realizzazione di tre appartamenti e un porticato su due livelli sulla facciata sud.

Carattere unitario del manufatto abusivo

Per la Cassazione, il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e aspecificità stante l’assenza di confronto con le ragioni della decisione.

Il giudice dell’esecuzione sul ritenuto carattere unitario del manufatto abusivo ha rigettato, infatti, l’istanza di revoca dell’ordine di demolizione con riferimento al piano inferiore che costituiva il piano di calpestio dei locali abitativi abusivi del piano superiore. In particolare, sottolineano da piazza Cavour, il giudice ha rilevato che, come riportato nell’elaborato tecnico e come si evinceva dalle sentenze e dagli accertamenti, “fu costruito il manufatto al primo piano, ma lo stesso fu realizzato sul muro di contenimento – ed è – altresì evidente che era stato già realizzato anche il piano inferiore”. Pertanto, era “scontato che la realizzazione del piano inferiore, inizialmente costituito dal terrapieno sia stata eseguita in prosecuzione dell’abuso originario, come d’altronde incontrovertibilmente dimostrato dalla struttura unitaria”. In sostanza, si era realizzato prima il piano superiore e poi quello inferiore, ma si era creato “un unico organismo unitario, in cui i lavori del piano inferiore costituivano prosecuzione dei precedenti abusi”.

Ordine di demolizione coinvolge tutte le opere unitarie

Per gli Ermellini, dunque, il giudice dell’esecuzione ha fatto buon governo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui “in caso di abusi realizzati in progressione, la demolizione deve necessariamente coinvolgere tutte le opere complessivamente e unitariamente intese”. In tale ultimo senso, la S.C. ha infatti precisato che “l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall’art. 31, comma nono, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di ‘restitutio in integrum’ dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa li carattere abusivo dell’originaria costruzione (tra le tante, Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016; Sez. 3, n. 43236 del 11/10/2023)”.

La decisione

Rigettati anche gli altri motivi, la corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 c.p.p. oltre al pagamento di 3mila euro in favore della Cassa delle Ammende.

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referendum piattaforma digitale

Referendum: arriva la piattaforma digitale Il ministero della Giustizia annuncia che presto sarà pronta la piattaforma referendum per la raccolta delle sottoscrizioni digitali dei cittadini

Referendum, pronta a breve piattaforma digitale

Presto pronta la piattaforma referendum, per la raccolta delle sottoscrizioni digitali dei cittadini delle proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum abrogativi o costituzionali. Ne dà notizia Gnewsonline.it, il giornale online del ministero della Giustizia.

Parere del Garante Privacy

Ottenuto il parere del garante per la protezione dei dati personali, la Direzione Generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia è pronta a verificare la funzionalità del sistema informatico con degli specifici test, che riproducano tutte le fasi della raccolta delle sottoscrizioni.

Iter

Le prove, realizzate insieme al personale della corte di Cassazione, dovrebbero concludersi entro 2 settimane.

Sarà poi un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del titolare della Giustizia, ad attestare l’operatività della piattaforma.

tappi attaccati bottiglie

Tappi attaccati alle bottiglie: al via l’obbligo Dal 3 luglio 2024 in base alla Direttiva UE SUP i tappi "solidali" dovranno restare attaccati ai contenitori di plastica per ridurre la dispersione e favorire il riciclo

Tappi “solidali: dal 3 luglio in vigore l’obbligo della Direttiva UE

Dal 3 luglio 2024 tutte le aziende che producono bevande contenute nelle bottiglie di plastica devono rispettare l’obbligo del “tappo solidale”. Lo ha stabilito la Direttiva UE 2019/904 sulla plastica monouso finalizzata a ridurre l’incidenza dei prodotti di plastica sull’ambiente.

L’articolo 17 della Direttiva, dedicato al recepimento, prevede che gli Stati debbano applicare le disposizioni necessarie per conformarsi all’obbligo previsto dall’articolo 6, relativo ai tappi “solidali” a partire dal 3 luglio 2024.

Quest’obbligo è solo una delle tante misure adottate dalla Direttiva SUP (Single Use Plastics Direttive) per contrastare l’inquinamento delle acque da parte delle bottiglie di plastica, troppo spesso gettate ovunque, soprattutto in mare e sulla spiaggia, con conseguenze estremamente dannose sulla vegetazione e sugli animali.

Divieto plastica monouso

La Direttiva, lo ricordiamo, ha già posto il divieto di vendita dei prodotti di plastica monouso come i piatti, le posate, le cannucce e i cotton-fioc, a partire dal 2021.

Il 2024 invece è l’anno di entrata in vigore dei tappi “solidali, vediamo cosa dice la normativa europea al riguardo.

Lotta alla dispersione dei tappi di plastica

Nel considerando n. 17 la Direttiva fa presente come i tappi e i coperchi di plastica dei contenitori delle bevande siano tra gli oggetti di plastica maggiormente rinvenuti sulle spiagge dell’Unione Europea.

I contenitori delle bevande di plastica monouso dovrebbero quindi essere immessi sul mercato solo se sono in grado di soddisfare certi requisiti di progettazione in grado di ridurre significativamente la dispersione nell’ambiente dei tappi di plastica.

Nell’articolo 6 invece, dedicato ai requisiti dei prodotti in plastica, la Direttiva stabilisce specificamente che gli Stati membri devono provvedere a che i prodotti in plastica monouso indicati nella parte C dell’allegato, con i relativi tappi plastica “possano essere immessi sul mercato solo se i tappi e i coperchi restano attaccati ai contenitori per la durata delluso previsto del prodotto”. 

L’allegato C specifica infatti quali sono i prodotti di plastica monouso indicati nell’articolo 6, che devono presentare i requisiti sopra descritti, ossia i contenitori per bevande con una capacità massima di 3 litri, ossia i recipienti che contengono liquidi, come bottiglie per bevande con i relativi tappi, nonché gli imballaggi compositi di bevande con i relativi tappi e coperchi.

Tappi attaccati alle bottiglie: quali vantaggi?

L’obbligo di produrre contenitori di plastica con i tappi di chiusura progettati in modo tale da restare attaccati alle bottiglie mirano a realizzare due obiettivi fondamentali della Direttiva:

  • ridurre la dispersione dei piccoli pezzi di plastica. I tappi di plastica dei contenitori, infatti sono molto piccoli e leggeri, per cui possono essere trasportati facilmente dal vento e, aspetto ancora più pericoloso, possono essere ingeriti dagli animali;
  • facilitare la fase del riciclo: se il tappo resta ben attaccato al suo contenitore questi due componenti possono essere riciclati insieme. In questo modo la quantità di plastica riciclata aumenta e il procedimento di riciclo risulta senza dubbio più efficiente.

Le altre misure della Direttiva SUP per ridurre la plastica

Come anticipato, la misura che riguarda i tappi di plastica è solo una delle iniziative intraprese a livello europeo per ridurre la quantità di plastica immessa nell’ambiente.

La Direttiva SUP prevede infatti interventi finalizzati a ridurre il consumo dei prodotti di plastica monouso, dispone restrizioni all’immissione sul mercato di certi prodotti in plastica, stabilisce, come appena visto per i tappi, determinanti requisiti di costruzione dei prodotti in plastica, introduce precisi requisiti di marcatura dei prodotti, estende la responsabilità del produttore, impone agli Stati di adottare le misure necessarie per attuare in modo efficace la raccolta differenziata e stabilisce che gli Stati debbano adottare anche misure di sensibilizzazione per informare i consumatori e incentivare condotte più responsabili per la tutela dell’ambiante e la salute.

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espropriazione pubblica utilità

Espropriazione per pubblica utilità Il procedimento di espropriazione per pubblica utilità e le sue fasi: il vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità, l’indennità e il decreto di esproprio

Cosa si intende con espropriazione?

L’espropriazione per pubblica utilità è una procedura che le pubbliche amministrazioni possono mettere in atto quando, in base agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, ritengano che una determinata area debba essere asservita alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità o che un determinato immobile debba essere destinato ad una funzione di pubblica utilità.

L’espropriazione per pubblica utilità nella Costituzione

L’espropriazione si pone, quindi, come un limite al diritto di proprietà, nel senso che pur corrispondendo quest’ultimo ad un potere illimitato di godimento e disposizione sul bene in capo al proprietario, tale diritto/potere è destinato a recedere di fronte al superiore interesse pubblico.

Questo è esattamente il concetto espresso dall’art. 42 della Costituzione, che al terzo comma dispone, appunto, che la proprietà privata, nelle ipotesi previste dalla legge, può essere espropriata per cause di interesse generale e che, in tali casi, al proprietario spetta un indennizzo.

Quanto dura il vincolo di esproprio?

Ovviamente, per evitare abusi, discriminazioni e disparità di trattamento, l’intero procedimento di espropriazione per pubblica utilità è disciplinato nel dettaglio dalla legge e trova, oggi, compiuta regolamentazione nel DPR n. 327 del 2001, c.d. Testo Unico sugli espropri.

In base alla normativa in vigore, il primo passaggio fondamentale del procedimento di espropriazione è l’apposizione del vincolo su un determinato bene. La scelta del bene, o dei beni, su cui apporre tale vincolo discende direttamente dall’approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica, come il Piano di Governo del Territorio o il Piano Regolatore.

Il vincolo ha una durata di cinque anni, anche se la legge prevede che possa essere reiterato nel caso in cui non abbia avuto seguito entro tale termine. In tale ipotesi, però, al proprietario va riconosciuta un’indennità commisurata al danno prodotto. Ciò è conseguenza del fatto che, per il fatto dell’apposizione del vincolo, il bene subisce un chiaro deprezzamento, e la reiterazione del vincolo non fa altro che prolungare tale situazione.

Entro i cinque anni dall’apposizione, pertanto, deve normalmente intervenire il successivo provvedimento dell’Autorità procedente, che consiste nella dichiarazione di pubblica utilità. In caso contrario, e in mancanza di reiterazione, il vincolo decade.

La dichiarazione di pubblica utilità

La dichiarazione di pubblica utilità consegue all’approvazione del progetto definitivo di un’opera (si pensi ad una strada) e si concreta nella destinazione alla pubblica utilità dell’area su cui tale opera dovrà insistere.

Tale dichiarazione viene resa pubblica dall’Ente procedente (ad esempio sugli albi, o in apposite sezioni del sito web istituzionale) e può essere oggetto di osservazioni da parte di eventuali controinteressati, le quali vengono esaminate dall’amministrazione nell’ambito di un’istruttoria di cui viene dato conto nel provvedimento finale.

Tale provvedimento può prevedere la trasformazione fisica dell’immobile (nel classico caso di costruzione di una nuova opera) o nella semplice destinazione ad uso pubblico di un immobile privato preesistente.

In ogni caso, il provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità viene notificato ai proprietari delle aree interessate, in vista del conseguente provvedimento di esproprio, che deve essere adottato entro cinque anni, salvo proroga di massimo due anni.

Quanto viene pagato un esproprio?

Prima dell’adozione del decreto di esproprio, cioè del provvedimento con cui si conclude il procedimento di espropriazione per pubblica utilità, è necessario che l’amministrazione procedente determini l’indennità di esproprio.

Tale emolumento rappresenta l’indennizzo al proprietario, la cui corresponsione è prevista, come detto, dall’art. 42 della nostra Costituzione.

L’indennità provvisoria è comunicata al destinatario, che può accettare l’importo o avanzare le proprie osservazioni in merito. Successivamente, l’Ente, sentiti i tecnici incaricati, determina l’indennità di esproprio definitiva, commisurata al valore venale del bene.

Dopo il pagamento dell’indennità, viene stipulato con il privato l’atto di cessione e adottato il decreto di esproprio, con la conseguente presa di possesso da parte dell’Amministrazione procedente e l’avvio dei lavori, ove previsti.