Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo
In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere:
- a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile;
- b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) a una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica;
- c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Sez. Un. 8 novembre 2022, n. 32914.
La Cassazione del 2021 aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione se i crediti relativi agli assegni che derivano dalla crisi familiare abbiano tutti le caratteristiche della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità dei crediti alimentari; se tali caratteristiche, se presenti, dipendano o meno dalla entità della somma; se nel caso in cui sia in discussione la non debenza dell’assegno sia possibile scorporare la quota di esso avente finalità alimentare.
Il caso riguardava una vicenda relativa alla richiesta di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, avanzata dall’ex moglie.
La Cassazione, nella pronuncia in esame, ha dato risposta ai quesiti indicati seguendo un analitico schema argomentativo.
Le Sezioni Unite rilevano che la questione riguarda la condanna della ricorrente, disposta dalla Corte d’appello, alla restituzione delle somme percepite dal coniuge separato e poi divorziato, dall’ottobre 2009, a titolo di assegno di mantenimento, alla asserita irripetibilità, in tutto o in parte (nei limiti della modesta entità dell’importo del contributo), delle somme versate a titolo di mantenimento, stante la natura sostanzialmente alimentare dell’obbligazione.
La questione implica, a sua volta, la soluzione di alcuni fondamentali quesiti: a) quello circa la sussistenza o meno di un principio generale di irripetibilità delle statuizioni economiche in sede di giudizio di separazione e divorzio (in relazione ai coniugi e ai figli), ricavabile dalla disciplina processuale; b) quello relativo alla natura alimentare (in tutto o in parte) o para-alimentare o con finalità anche alimentare dell’assegno di mantenimento del coniuge separato o divorzile, ricavabile dal diritto sostanziale e circa l’effettivo carattere di irripetibilità della prestazione di alimenti, desumibile, in difetto di un’espressa disposizione normativa, dalla complessiva disciplina dettata in materia o da principi costituzionali.
La Corte premette che in generale, sul contributo al mantenimento del coniuge, vanno svolte alcune considerazioni generali in ordine agli effetti della separazione e del divorzio (e della crisi del rapporto di coppia, avuto riguardo alle unioni civili) sui rapporti patrimoniali fra i coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento del coniuge (e dei figli).
La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significati mutamenti: a) il coniuge cui non è stata addebitata la separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 c.p.c.; b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde invece il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno.
Si afferma, con orientamento prevalente, che il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato sorge e decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio.
Invece, l’assegno divorzile, del tutto autonomo rispetto a quello di mantenimento concesso al coniuge separato, a seguito della riforma introdotta nel 1987, e dell’intervento chiarificatore da ultimo espresso da queste Sezioni Unite nella sent. 18287/2018, ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce a occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico), nel senso che i criteri previsti dall’art. 5 L.div. (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an della concessione sia al fine di determinare il quantum dell’assegno.
Si è quindi evidenziato (Cass. Sez. Un. 18287/2018) che “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile – al pari dell’assegno di mantenimento in sede di separazione -, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”. In sostanza, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti, patrimoniale e reddituale, occorrerà verificare se esso, in termini di correlazione causale, sia o meno il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.
Quanto alla decorrenza dell’assegno divorzile, se, vigente la disciplina dettata dal testo originario della L. 898/1970, si era individuato tale momento, in correlazione con la definitiva acquisizione da parte dei coniugi dello status di divorziati, con riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, che segna lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del vincolo coniugale e che rispetto allo status predetto ha efficacia costitutiva (Cass. 3038/1977; Cass. 6485/1986), la riforma del 1987 ha introdotto un temperamento, prevedendo che la sentenza di primo grado volta a determinare la misura dell’assegno sia provvisoriamente esecutiva, riguardo ai provvedimenti di natura economica, e che il tribunale, nell’emanare la sentenza non definitiva (e questa Corte ne ha esteso la portata anche all’ipotesi in cui sia stata emessa sentenza definitiva di divorzio, Cass. 5140/2011, o di contestuale pronuncia sul divorzio e sull’assegno, Cass. 7458/1990), possa stabilire, motivatamente, che l’assegno decorra, ancor prima, a partire dalla data della domanda giudiziale, ex art. 4, pur in mancanza di una specifica richiesta di parte (Cass. 3351/2003; Cass. 19330/2020). Per il periodo precedente, la situazione economica rimane disciplinata dalla normativa sulla separazione dei coniugi (ove il divorzio sia pronunciato per il protrarsi della stessa).
Sia l’assegno di mantenimento sia quello divorzile possono subire variazioni, in aumento o in diminuzione, per effetto del cambiamento della situazione patrimoniale relativa al debitore o al creditore considerata al momento della sentenza. Quanto all’assegno divorzile se la necessità di un assegno si manifesti dopo il passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, esso verrà liquidato in separato giudizio, restando ferma la possibilità di avanzare la domanda successivamente alla sentenza di divorzio, anche in difetto di pregressa domanda giudiziale (Cass. 2198/2003, ove si è chiarito che il deterioramento delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi, che consente il riconoscimento dell’assegno, può verificarsi anche dopo il divorzio, proprio perché trova fondamento nel dovere di assistenza, e non nel nesso di causalità o di concomitanza tra divorzio e deterioramento delle condizioni di vita). Ove si verifichino mutamenti di circostanza, così da richiedere una modifica dell’assegno, la pronuncia potrebbe far retroagire tale aumento dal momento (successivo alla domanda) del mutamento di circostanza o addirittura disporlo a far data dalla decisione (cfr., sul punto, Cass. 15 marzo 1986, n. 3202).
La Corte osserva, in generale, sul tema degli alimenti, che l’obbligazione legale di alimenti, vale a dire la corresponsione dei mezzi atti a soddisfare i bisogni essenziali necessari alla persona per condurre una vita dignitosa (a es. vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, trasporto), trova anch’essa fondamento, al pari del diritto al mantenimento del coniuge e dei figli, nella solidarietà familiare, peraltro in un’accezione, quanto all’individuazione dei soggetti obbligati ex lege, di famiglia più estesa di quella nucleare cui è dedicato il libro primo del codice (rilevando rapporti di parentela, affinità, coniugio, unione civile, convivenza di fatto), ma essa può sorgere anche tra estranei. Si deve quindi tener conto (ai sensi del 2 comma dell’art. 438 c.c.) dei bisogni specifici del richiedente e delle condizioni economiche dell’obbligato (prevedendosi, conseguentemente, che vi siano più soggetti tenuti all’adempimento del dovere). La misura degli alimenti che il creditore può pretendere, non fissata dal legislatore in modo fisso, non dovrebbe superare, in generale, quanto sia necessario per la vita dell’alimentando (tenuto conto dei bisogni non solo materiali ma anche civili), avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità e alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne. In ogni caso, la valutazione deve essere operata in concreto e personalizzata.
Si è osservato che l’obbligazione alimentare si differenzi dall’obbligazione tipica civile per alcuni caratteri peculiari della sua specifica regolamentazione, dettata dall’art. 433 c.c. e ss., che si spiegano in relazione alla sua funzione: un regolamento di interessi rivolto alla realizzazione dei bisogni esistenziali di un soggetto privo dei mezzi necessari per provvedervi.
Ancora, la prestazione alimentare prescinde dallo stato soggettivo del creditore, salva la possibilità (art. 440, comma 1, c.c.) di riduzione (non di esclusione) degli alimenti, in considerazione della condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato. L’art. 448 bis c.c. (introdotto dalla Riforma della filiazione con L. 219/2012) contempla invece la perdita del diritto agli alimenti, a favore dei figli (e i loro discendenti), che vengono quindi esonerati dall’obbligazione alimentare, in caso di pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c.
In ambito successorio, in sede di separazione personale, nasce poi, a favore del coniuge cui sia addebitabile la stessa e che versi in stato di bisogno, un’obbligazione di natura anche alimentare nelle forme di un assegno vitalizio (art. 548 c.c.). L’art. 9bis L. div. prevede poi, in presenza di determinati presupposti, quali la titolarità dell’assegno di divorzio e lo stato di bisogno, la possibilità di attribuire, dopo il decesso dell’obbligato, un assegno periodico a carico dell’eredità, tenuto conto dell’importo dell’assegno post-coniugale, dell’entità del bisogno, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Ai sensi dell’art. 440 c.c., la sentenza è sempre subordinata alla clausola rebus sic stantibus e quindi, venendo meno uno dei presupposti del credito alimentare, se ne potrà chiedere la riduzione o la cessazione (ovvero l’aumento in caso di peggioramento delle condizioni economiche). Secondo Cass. 1231/1967, “La possibilità che, per una causa qualsiasi, lo stato di bisogno dell’alimentando si manifesti o si aggravi da un momento all’altro, modificandosi la precedente situazione di fatto, importa, da una parte, che nell’obbligazione alimentare deve ritenersi insito il carattere di prestazione rebus sic stantibus, suscettibile, come tale, di adeguamenti e modifiche, e, dall’altra, che, nello stabilire se il diritto a tale prestazione sussista o non e, nell’affermativa, in quale misura questa debba essere eseguita, il giudice ben può tener conto di tutti i mutamenti verificatisi rispetto alla situazione di fatto in precedenza considerata, non esclusi quelli eventualmente prodottisi nel corso del giudizio” (conf. Cass. 1577/2019, stante l’inequivoco tenore dell’art. 440 c.c.).
Quanto alla decorrenza, l’art. 445 c.c., prescrive, per le obbligazioni alimentari legali (non quelle da negozio giuridico, Cass. 3525/1968, la cui decorrenza è fissata in via pattizia) che gli alimenti siano dovuti dalla domanda ovvero dalla costituzione in mora del debitore, cui deve però seguire entro sei mesi la domanda giudiziale (Cass. 4011/1999: “Il principio secondo cui l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento decorre (in applicazione della regola fissata per gli alimenti dall’art. 445 c.c.) dalla data della presentazione della domanda da parte dell’avente diritto riguarda soltanto il profilo dell’an debeatur della domanda stessa, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il quantum tenendo conto dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità della fissazione di misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati”).
La Corte, previa analisi del quadro normativo e dei contrapposti orientamenti giurisprudenziali, indaga la natura o meno alimentare o “para-alimentare” o con finalità anche assistenziale della prestazione di mantenimento, nella separazione e divorzio.
Pur nella comune riconduzione al concetto di solidarietà familiare (a eccezione del rapporto donatatario/donante), sussistono indubbie differenze strutturali e funzionali tra gli alimenti, secondo la modalità di somministrazione periodica di somma di denaro, e l’assegno di mantenimento del coniuge separato e di divorzio (al di fuori dell’ipotesi di corresponsione in unica soluzione): a) il diritto al mantenimento del coniuge separato, cui non sia addebitabile la separazione, presuppone la mancanza di mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato; b) l’assegno divorzile ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce a occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico); c) presupposti del diritto agli alimenti sono lo stato di bisogno del soggetto richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato, rilevando, come criterio per determinarne la misura concreta, anche la capacità economica dell’obbligato di provvedere alle necessità del bisognoso (riferita, quanto al donatario, anche al valore della donazione ricevuta).
Solo il diritto agli alimenti richiede tra i presupposti costitutivi uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento e, di regola, tende ad appagare le più elementari e basilari esigenze di vita quali il vitto, l’alloggio, il trasporto e le cure mediche, ma anche bisogni “civili”, quali l’istruzione, avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità e alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne.
Tuttavia, costituisce acquisizione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui, nonostante la sostanziale diversità delle condizioni che legittimano le due domande, la richiesta di alimenti non costituisce una domanda nuova, ma un minus necessariamente ricompreso nella più ampia richiesta di mantenimento (Cass. 4702/1978; Cass. 51/1981, Cass. 5698/1988; Cass. 2128/1994; Cass. 5677/1996; Cass. 5381/1997; Cass. 4198/1998; Cass. 1761/2008; Cass. 10718/2013; Cass. 27695/2017).
La stessa Corte Costituzionale, con la sent. 17/2000, ha, di fatto, nel ritenere l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, ricompreso tra i crediti privilegiati di cui all’art. 2751, n. 4, c.c. e art. 2778, n. 17, c.c., i crediti di mantenimento in caso di separazione e i crediti da assegni divorzili, rispondendo entrambi i crediti alla medesima funzione, precisando che il credito da mantenimento del coniuge separato o divorziato ha un contenuto più esteso di quello alimentare in senso stretto.
In sostanza, si è inteso dare rilievo al comune carattere (o meglio alla comune finalità) “assistenziale” delle diverse prestazioni e al fatto che anche l’assegno di mantenimento del coniuge separato e l’assegno divorzile, nella sua componente propriamente assistenziale, nonché l’assegno di mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente, rispondano, al pari degli alimenti, alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, sia pure in un’accezione più ampia e non essendo necessario uno stato di indigenza o bisogno, come negli alimenti.
Il richiamo, nelle situazioni di crisi della famiglia, ai principi costituzionali generali (artt. 2 e 29 Cost.), strumenti più duttili e quindi più efficienti, talvolta, della disciplina positiva, si realizza anche attraverso il riferimento al “principio di solidarietà sociale”, che nel settore della società familiare prende il nome di “solidarietà familiare” o “solidarietà post – familiare”, che deve ispirare i componenti della famiglia a comportamenti di correttezza e di buona fede, finalizzati, pur a fronte della rottura della famiglia, a un riequilibrio del rapporto di coppia e tra genitori e figli, al fine di evitare tendenzialmente, nei rapporti reciproci, conflittualità e abusi.
Infine, la Corte verifica la questione dell’effettiva irripetibilità delle prestazioni alimentari, e la possibile giustificazione di una parziale irripetibilità delle prestazioni di mantenimento nelle situazioni di crisi del rapporto di coppia, con i suoi imiti.
È stato affermato dalla Cassazione che la retroattività della sentenza, nel rapporto tra sentenza di primo grado e sentenza di appello, nel caso in cui escluda o riduca l’assegno stabilito nella sentenza impugnata, può operare solo a favore del beneficiario dell’assegno, considerato il carattere “latamente alimentare” o la funzione anche alimentare dell’assegno (nel senso della ricomprensione del minus alimentare nella più ampia obbligazione di mantenimento) e la conseguente applicabilità, per analogia, agli assegni separativi o divorzili del trattamento riservato agli alimenti, ragione questa per cui l’effetto retroattivo della sentenza debba in ogni caso conciliarsi con i caratteri della impignorabilità, della non compensabilità e “della irripetibilità” dell’assegno di mantenimento “desumibili dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c.”, propri della disciplina dell’assegno alimentare Ora, in effetti, non si rinviene nell’ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno propriamente alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando, atteso che l’art. 447 c.c., si occupa di disciplinare la cessione del credito alimentare e la sua compensazione con un controcredito dell’obbligato, ma non ne sancisce l’irripetibilità, mentre gli artt. 545 e 671 c.p.c., contemplano l’impignorabilità (non assoluta, essendo pignorabili i crediti a loro volta alimentari, a condizione dell’autorizzazione del giudice) e l’insequestrabilità dei crediti alimentari. Le stesse disposizioni specifiche degli artt. 440 e 446 c.c., non escludono la possibilità del ricorso al generale rimedio dell’azione di ripetizione di indebito, nelle ipotesi di riduzione dell’assegno alimentare fissato in via cautelare e provvisoria dal Presidente del Tribunale o di esclusione del diritto con il provvedimento definitivo.
Di conseguenza, non può negarsi l’efficacia caducatoria e ripristinatoria dello status quo ante e dunque sostitutiva della sentenza impugnata propria della sentenza emessa in esito al successivo grado di giudizio, sulla base del semplice riferimento alla disciplina dettata per gli alimenti in senso proprio.
Peraltro, riguardo alla questione che in questa sede interessa, non si tratterebbe di sancire l’obbligo di restituzione di quanto percepito a titolo strettamente alimentare, ma di restituire somme di denaro versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme di denaro versate sulla base di un supposto e parzialmente inesistente diritto al mantenimento.
In realtà, un temperamento al principio di piena ripetibilità trova giustificazione solo per ragioni equitative, di stampo c.d. “pretorio”.
Invero, l’opinione, pacifica in giurisprudenza, secondo cui la sentenza che escluda o riduca l’assegno alimentare concesso con provvedimento provvisorio o con la sentenza definitiva del grado inferiore del processo non potrebbe, a determinate condizioni, comportare la ripetibilità delle maggiori somme già versate, si giustifica su di un piano “equitativo”, sulla base nei principi costituzionali di solidarietà umana (art. 2 Cost.) e familiare in senso ampio (art. 29 Cost.: la società “naturale” costituita dalla famiglia), e solo nella misura in cui si esoneri il soggetto beneficiario, dal restituire quanto percepito provvisoriamente anche “per finalità alimentare”, sul presupposto che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state verosimilmente consumate per far fronte proprio alle essenziali necessità della vita (argomento tratto da art. 438, comma 2, c.c.).
Occorre dunque dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, espressione di quella solidarietà che trova sede anche nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia e anche nelle situazioni di crisi della unione, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa.
Non si tratta di dettare una regola di “automatica irripetibilità” delle prestazioni rese in esecuzione di obblighi di mantenimento, quanto di operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – palesata nel presente giudizio dal controricorrente – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto.
Ora, ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati), ovvero si addebiti la separazione al coniuge che, nelle more, abbia goduto di un assegno con funzione non meramente alimentare, non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità).
Per converso, si deve affermare che, invece, non sorge, a favore del coniuge separato o dell’ex coniuge, obbligato o richiesto, il diritto di ripetere le maggiori somme provvisoriamente versate sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) a una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione) sia nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale (o nel rapporto tra la sentenza definitiva di un grado di giudizio rispetto a quella, sostitutiva, del grado successivo) venga rimodulato “al ribasso”; il tutto sempre se l’assegno in questione non superi la misura che garantisca al soggetto debole di far fronte alle normali esigenze di vita della persona media, tale che la somma di denaro possa ragionevolmente e verosimilmente ritenersi pressoché tutta consumata, nel periodo per il quale è stata prevista la sua corresponsione.
Ciò si giustifica in considerazione della tutela di quella solidarietà post-familiare, sottesa in tutta la disciplina relativa alla crisi della famiglia, e del fatto che non è in discussione, in tali ipotesi, l’esistenza e la permanenza, in giudizio, di un soggetto in condizioni di debolezza economica. Si deve infatti ragionevolmente presumere, in rapporto all’entità della somma di denaro litigiosa, che le maggiori somme (attribuite in via provvisoria o in via definitiva con la sentenza di primo grado), versate medio tempore dal richiesto al richiedente, siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole.
Si tratta, oltretutto, di una regola anche di esperienza pratica, in quanto il denaro, nell’ambito di cifre di modesta entità, percepito in funzione del necessario sostentamento del coniuge, è da presumere che sia stato speso a quel fine, con conseguente esclusione di ogni, inutile, azione di ripetizione.
L’entità, necessariamente, modesta di tale somma di denaro non può essere determinata in maniera fissa e astratta, considerato che il legislatore non ha fissato in maniera rigida la misura e il contenuto neppure della prestazione alimentare in senso proprio, essendosi ritenuta necessaria una valutazione personalizzata e in concreto, la cui determinazione è riservata al giudice di merito, valutate tutte le variabili del caso concreto: la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica, nonché il contesto socio-economico e territoriale in cui i coniugi o gli ex coniugi sono inseriti.