Civile, Il giurista risponde

Morte congiunto sinistro stradale e danno parentale Come si liquida il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale a seguito della morte di un prossimo congiunto coinvolto in un sinistro stradale?

giurista risponde

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In caso di perdita definitiva del rapporto parentale ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto. – Cass., sez. VI, 13 dicembre 2022, n. 32697

A seguito di un sinistro stradale nel quale morì una ragazza che viaggiava in qualità di trasportata, i parenti della stessa chiedevano al Tribunale la condanna della compagnia assicurativa del veicolo al risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale. La madre e la sorella della deceduta, non ritenendo satisfattive le somme corrisposte dalla convenuta a titolo di indennizzo, deducevano che la prova dell’intensità del vincolo affettivo fosse desumibile dalla documentazione prodotta e che la morte della loro congiunta, stante la dinamica del sinistro, fosse dipesa esclusivamente dalla condotta gravemente colposa della conducente del veicolo. In termini analoghi, ma con distinti atti di citazione hanno provveduto i nonni, i due fratelli e il padre della vittima, ritenendo non satisfattivo l’indennizzo corrisposto al padre, nonché ingiustificato il mancato riconoscimento di un danno in capo ai nonni.

Integrato il contraddittorio nei confronti del proprietario del veicolo su cui si trovava come trasportata la vittima e disposta la riunione dei giudizi, il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere, per intervenuta transazione, in relazione al rapporto processuale tra la sorella della vittima e la compagnia assicuratrice. Venivano inoltre rigettate tutte le domande proposte dagli attori, non ritenendo sussistenti rapporti affettivi idonei a giustificare un risarcimento maggiore rispetto a quello riconosciuto in sede stragiudiziale, con compensazione delle spese di lite.

Avverso tale decisione venivano proposti distinti gravami alla Corte di appello. La compagnia assicuratrice, costituendosi, chiedeva il rigetto delle domande degli appellanti e, in caso di accoglimento, l’accertamento del concorso di colpa della vittima nella causazione del sinistro, con conseguente riduzione proporzionale del risarcimento eventualmente riconosciuto in eccedenza rispetto a quanto già accordato.

Riuniti i due procedimenti, la Corte di appello imputava la morte della vittima nella misura del 30% a sua colpa concorrente e, nella misura del 70%, a colpa della conducente del veicolo, condannando la compagnia assicuratrice, in solido con il proprietario dell’autovettura, al risarcimento del danno da perdita di legame parentale. Venivano dunque liquidati importi diversi in favore di ciascuno dei familiari superstiti. La Corte di merito ha ritenuto, inoltre, non meritevole di accoglimento la domanda proposta iure proprio dal padre della giovane deceduta, confermando sul punto la decisione di primo grado, sia pure con diversa motivazione.

Avverso la richiamata sentenza veniva proposto ricorso per cassazione per due motivi. Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2059 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, sostenendo che la Corte di appello avrebbe liquidato, in suo favore, sulla base della “non effettività del legame padre figlia”, il danno da perdita parentale al di sotto dei valori minimi di cui alle Tabelle di Milano, “senza motivare” al riguardo, così violando l’art. 1226 c.c. La Corte territoriale avrebbe, secondo il ricorrente, fondato la sua decisione esclusivamente sulla base di mere dichiarazioni, omettendo di valutare le ulteriori dichiarazioni rese dallo stesso e dagli operatori dei Servizi Sociali del Comune, da cui sarebbe emersa la volontà del padre di riavvicinarsi alla figlia e la conseguente permanenza del vincolo affettivo.

Si lamenta, inoltre, una disparità di trattamento con la madre della vittima, alla quale sarebbe stato riconosciuto un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante, sostiene il ricorrente, avesse avuto un “trascorso di vita del tutto simile al padre, caratterizzato dall’analoga carenza del rapporto di convivenza con la figlia”.

Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, il motivo di ricorso non merita accoglimento. La Corte territoriale ha infatti espressamente richiamato l’orientamento della Corte di Cassazione in tema di danno da perdita del rapporto parentale, secondo cui «è onere dei congiunti provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità. Il giudice può discostarsi dalla misura minima prevista dalle Tabelle di Milano purché dia conto nella motivazione della specifica situazione che giustifica la decurtazione» (Cass. 14 novembre 2019, n. 29495; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21230; Cass. 8 aprile 2020, n. 7743).

Correttamente, dunque, la Corte di merito ha applicato tali principi e correttamente ha motivato il lamentato discostamento dai valori tabellari con riferimento alla situazione specifica.

Più precisamente secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale, nel ritenere non provata l’effettività del rapporto parentale con riguardo alla relazione padre-figlia, ha in primis valutato la travagliata storia familiare della vittima e, stante l’assenza di una stabile convivenza con entrambi i suoi genitori, ha ancorato tale valutazione a quanto complessivamente risultante agli atti. Tale disamina è stata effettuata disgiuntamente e con ampiezza di argomentazioni in relazione ai rapporti con ognuno dei genitori, risultando così evidente la diversa consistenza di tali rapporti. Non può, pertanto, essere condivisa l’argomentazione del ricorrente, il quale ha rilevato come il rapporto parentale della figlia con la madre sia stato considerato effettivo ed abbia condotto ad un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante il “trascorso di vita del tutto simile al padre”.

La Corte di appello ha concluso per la non effettività del rapporto parentale con il padre, non limitando il suo convincimento alle dichiarazioni rese innanzi al Tribunale per i Minorenni, bensì considerando anche che, per stessa ammissione del padre, il rapporto con la figlia constava in contatti telefonici e manifestava la sua fragilità nella non partecipazione del padre agli incontri organizzati dai Servizi Sociali, nonché nel fatto che non si fosse mai posto il problema del mantenimento della figlia. Peraltro, va evidenziato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto nella motivazione dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto.

Stante la chiarezza e la logicità della motivazione in merito al discostamento tra il danno liquidato e quanto astrattamente previsto dalle Tabelle di Milano, non può considerarsi violata la disciplina della liquidazione del danno in via equitativa né risultano sussistenti gli ulteriori vizi dedotti, sicché il primo motivo di ricorso è ritenuto infondato.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano, dei parametri dalle stesse forniti e del principio di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c. c., dall’art. 2056 c. c. e dall’art. 2059 c. c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”. In qualità di erede del nonno della vittima, il ricorrente sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa in una incongrua motivazione in relazione alla mancata applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano nella quantificazione del danno da perdita parentale con riferimento al nonno paterno della vittima, in quanto ai fini di tale liquidazione, nonostante abbia riconosciuto l’intensità e la presenza del legame parentale tra i nonni paterni e la nipote, avrebbe ritenuto di procedere alla determinazione del quantum senza l’utilizzo delle Tabelle, bensì procedendo in via equitativa. L’incongruità della motivazione, argomenta il ricorrente, consterebbe nell’essersi la Corte limitata a considerare il difetto di convivenza con la nipote, l’esiguo lasso di tempo intercorso tra la morte della stessa e quella del nonno e la presenza di altri familiari a sostegno del dolore patito dal nonno paterno in tale periodo.

Anche il secondo motivo di doglianza, secondo la Suprema Corte, è incentrato su un’asserita incongruità e contraddittorietà della motivazione in merito al discostamento effettuato dai valori astrattamente predisposti dalle Tabelle di Milano e alla diversa quantificazione del danno operata in favore dei due nonni paterni, con conseguente – ad avviso del ricorrente – violazione dell’art. 1226 c.c. La Corte territoriale, in assenza di allegazioni specifiche, ha individuato il quantum del risarcimento del danno per la nonna paterna nel minimo previsto dalle tabelle milanesi; nel caso del nonno paterno, invece, ha posto in rilievo l’esiguità del tempo di sopravvivenza dello stesso rispetto alla data di morte della nipote e, stante l’assenza di convivenza della ragazza con i nonni ed il sostegno verosimilmente ricevuto dal resto della famiglia, ha rideterminato il quantum in via equitativa. Anche in questo caso, secondo la Corte di Cassazione, la motivazione risulta logica e congrua, né sussistono gli ulteriori lamentati vizi, poiché la durata della sopravvivenza al parente defunto (sette mesi) e il sostegno ricevuto verosimilmente dagli altri componenti della famiglia sono parametri che ben possono essere considerati ai fini della liquidazione del danno da perdita parentale. Anche il secondo motivo di ricorso è, quindi, infondato.

Conclusivamente, il ricorso viene rigettato, con liquidazione delle spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ. 29495/2019; Cass. civ. 21230/2016; Cass. civ. 7743/2020

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