privacy condominio

Privacy: amministratore responsabile del trattamento L’amministratore quale responsabile del trattamento dei dati del condominio

Privacy condominio

Sul tema il Garante si è espresso una prima volta nel 2006 con provvedimento intitolato “Amministrazione dei condomini”  del 18 maggio,  riconducendo in capo al condominio la titolarità del trattamento (documento web numero 1297626 punto 2). Il condominio, infatti, in virtù della disciplina normativa che lo regola nei suoi vari aspetti, agisce per il tramite dell’amministratore formalmente designato dall’assemblea al quale vengono attribuiti specifici poteri di rappresentanza.

Designazione amministratore non necessaria

Il Garante si è anche espresso nel senso di non ritenere necessaria  la designazione formale dell’amministratore quale responsabile del trattamento: ritenendo che essa costituisce una mera eventualità dovendosi intendere che in caso contrario l’amministratore operasse comunque per conto del condominio in virtù del rapporto di mandato presupposto inerente proprio il trattamento dei dati attraverso un impianto di videosorveglianza condominiale (vedi il provvedimento il 6 Aprile 2017 numero 6517060).

Quest’ultimo aspetto ovvero quello dell’eventuale nomina dell’amministratore a responsabile del trattamento veniva esplicitato in modo ancor più chiaro nel menzionato vademecum del 2013 laddove si diceva che l’assemblea può decidere di disegnarlo anche formalmente responsabile del trattamento dei dati personali dei partecipanti al condominio attribuendogli così  uno specifico ruolo in materia di  privacy.

Dopo l’introduzione del regolamento web 2016 numero 679 nell’ambito della relazione sull’attività svolta nel corso del 2019 l’autorità garante ha colto l’occasione per confermare questa indicazione e per ribadire che le informazioni personali riferibili a ciascun partecipante possono essere trattate per la finalità di gestione di amministrazione del condominio e che possono essere per tali ragioni condivise all’interno della compagine condominiale tenendo anche conto che i condomini devono essere titolari di un medesimo trattamento dei dati di cui l’amministratore agente in eventuale veste di responsabile del trattamento alla concreta gestione.

Conferimento formale all’amministratore

L’autorità garante non ha dunque preso posizioni chiare sull’obbligatorietà o meno di regolare il rapporto tra amministratore e condominio secondo quanto previsto dall’articolo 28 GDPR ovvero attraverso la sottoscrizione di un contratto o altro atto giuridicamente vincolante ma l’articolo 28 prevede che qualora un trattamento debba essere effettuato per conto del Titolare del trattamento quest’ultimo ricorre unicamente ad un  responsabile del trattamento che presenti garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del presente regolamento e garantisca la tutela dei diritti dell’interessato.

Il Titolare del trattamento dovrà dunque accertarsi che la catena di trattamento dei dati dallo stesso innescato sia rispettosa della normativa e dei diritti alla riservatezza del singolo anche nel caso in cui il Titolare del trattamento decida di avvalersi di altri soggetti.

Per quanto sopra si ritiene raccomandabile il conferimento di un formale incarico all’amministratore del condominio da parte dell’assemblea rispettoso dei contenuti indicati nell’articolo 28 del GDPR il che consentirà anche di dare attuazione concreta al principio della accountability. Solo così difatti il condominio potrà dare prova di aver preso atto delle condizioni di sicurezza offerte dal professionista che ne detiene, custodisce e tratta in vario modo i dati.

beni comuni condominio

I beni comuni L’individuazione dei beni in comune, l'elenco di cui all'art. 1117 c.c., la destinazione tipica e l'esclusione in base al titolo

Beni comuni in condominio

Quando in un fabbricato coesistono proprietà esclusive e proprietà in comune, alle prime asservite, si ha la figura del condominio. La proprietà solitamente è divisa in senso orizzontale, cioè per piani o porzioni di piano. Purtroppo, nessuna norma stabilisce che, tra i compiti affidati all’amministratore, vi sia quello di redigere un elenco dei beni comuni. Per prima cosa occorre, quindi, stabilire quali sono i beni comuni.

L’articolo 1117 c.c. individua le parti dell’edificio che si presumono di proprietà comune, in quanto solitamente destinati a servire in maniera indifferenziata l’intera collettività condominiale. Tali beni sono divisi in tre categorie (necessari, di pertinenza e accessori) a seconda della diversa funzione svolta dagli stessi. La novella legislativa del 2012 (L. 220/2012) non ha apportato significative innovazioni alla norma in esame, ma si è limitata a fornire una definizione più articolata delle parti comuni tenendo conto di tutte quelle innovazioni tecnologiche (si pensi, ad esempio, agli impianti per la ricezione radiotelevisiva, da satellite e via cavo) intervenute nel corso degli anni e che oggi si ritengono essenziali alla funzionalità degli appartamenti.

I beni comuni ex art. 1117 c.c.

L’elencazione dei beni comuni fornita dall’articolo 1117 c.c. è la seguente:

  • beni comuni necessari: sono quelli indicati al punto 1 dell’articolo 1117 c.c. e comprendono il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli ànditi, i portici, i cortili e in genere tutti le parti dell’edificio necessarie all’uso comune. La L. 220/2012 ha aggiunto a questi beni comuni necessari i pilastri e le travi portanti;
  • beni comuni di pertinenza: sono quelli indicati al punto 2 dell’articolo 1117 c.c. e comprendono i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune. La L. 220/2012 ha aggiunto a tali beni, detti anche eventuali in quanto possono anche mancare, le aree destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
  • beni comuni accessori: sono quelli indicati al terzo punto dell’articolo 1117 c.c. e comprendono le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas. La L. 220/2012 ha aggiunto a questa elencazione anche gli impianti per il riscaldamento e il condizionamento dell’aria (in precedenza la norma parlava solo di impianti di riscaldamento), gli impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informatico, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condòmini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.

L’elencazione fornita dall’articolo 1117 c.c. non è tassativa né inderogabile. Ciò significa che ben possono aversi casi di condomìni nei quali vi siano beni comuni che il codice civile non ha indicato ed, inoltre, che lo stesso bene indicato tra i beni comuni dall’articolo 1117 c.c. può, invece, essere di proprietà del singolo condòmino: si pensi, ad esempio, al caso in cui il costruttore, in sede di alienazione del singolo appartamento, ceda all’acquirente l’intera proprietà del solaio di copertura del fabbricato.

Sulla scorta di quest’ultima considerazione è evidente che oltre alla destinazione di fatto all’uso comune, al fine di individuare quali sono i beni comuni, occorre risalire al momento di nascita del condominio e, quindi, l’amministratore deve aver riguardo non solo a quanto disposto all’articolo 1117 c.c., ma anche agli originari contratti di alienazione ed al regolamento di condominio contrattuale eventualmente richiamato, tenendo sempre ben presente che occorre un patto esplicito affinché il bene possa considerarsi di proprietà di un singolo condòmino e che, in mancanza, il semplice silenzio determinerà la proprietà comune del bene. Infatti, è all’originario atto di alienazione (il primo atto di vendita di un immobile facente parte del fabbricato) che la giurisprudenza attribuisce la nascita del condominio; quindi, è a questo momento che bisogna risalire per verificare se i beni identificati abbiano, o meno, natura di beni comuni. In pratica il costruttore, nel regolamento di condominio (contrattuale) o nel primo atto di vendita, deve riservarsi la proprietà di quelli che sono i beni in comune. In mancanza di espressa e specifica riserva il bene passa, sia pure pro quota, al condòmino, ma è da considerarsi ormai comune a tutti.

Il principio di separazione tra la proprietà del singolo condòmino ed i beni comuni non implica che i beni comuni siano necessariamente di proprietà di tutti i condòmini; difatti, l’amministratore potrà trovarsi di fronte alla cd. comunione parziaria, cioè a beni comuni che appartengono solo ad alcuni tra di essi (si pensi ad un condominio con più scale, ascensori ecc. dove questi sono comuni solo ai proprietari degli immobili cui servono ex art. 1123 III comma anche se lì si parla di spese per l’uso).

Durante la vita del condominio può accadere che le parti comuni subiscano delle variazioni. Si possono avere variazioni nella loro consistenza: ad esempio, a seguito della demolizione del tetto e la sua trasformazione in terrazzo di uso comune, oppure nella loro titolarità, come nel caso, ad esempio, della vendita dell’appartamento occupato dal portiere dopo che tale servizio è stato eliminato.

L’azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condòmini, è relativa ad un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condòmini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio.

D’altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall’articolo 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all’articolo 1317 c.c., secondo cui gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell’obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri.

L’esclusione in base al titolo

Dalla rubrica dell’articolo 1117 c.c., «Parti comuni dell’edificio», è evidente non solo il fatto che il legislatore abbia inteso porre in primo piano i beni comuni ma anche il fatto che il condominio negli edifici non è altro che un prodotto, cioè il risultato della comunione su determinate parti di un edificio senza le quali (parti comuni) non esisterebbe nemmeno il concetto di condominio.

Il medesimo articolo 1117 c.c. non si limita ad elencare le cose comuni di un edificio in condominio poiché contiene, nella prima parte, un’importantissima precisazione secondo la quale tutte le parti ivi elencate debbano considerarsi comuni «se non risulta il contrario dal titolo».

La genericità del termine titolo non è un errore del legislatore ma risponde ad una precisa volontà di rifarsi ad un più ampio concetto in cui accomunare tutti gli atti che possano contenere l’esclusione di un bene dal novero delle parti comuni di un fabbricato.

Difatti, come si è precisato in dottrina: «Titolo può essere il documento (contratto) costitutivo del condominio […] ma può essere pure il testamento quando il condominio è imposto o deriva da un atto di ultima volontà; od anche l’atto di donazione. Titolo è quindi quell’atto giuridico capace di attribuire o trasferire il diritto di proprietà».

Da quanto detto risulta che il regolamento di condominio non può essere annoverato tra i titoli capaci di escludere un bene dalle parti comuni di un edificio. Difatti, dall’articolo 1138 c.c. si evince che lo stesso regolamento contiene «le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione». È evidente che il codice civile non attribuisce al regolamento la facoltà di escludere determinati beni dal novero delle parti comuni di cui all’articolo 1117 c.c. È anche vero, però, che se alla formazione del regolamento di condominio partecipano tutti i condòmini esso diviene un contratto a tutti gli effetti e ben può contenere una clausola di esclusione di un bene dalle parti comuni. È questa l’ipotesi in cui il regolamento formato dall’originario costruttore e depositato agli atti del notaio, che contiene una clausola di esclusione, viene richiamato nel primo e nei successivi atti di compravendita per formarne parte integrante e sostanziale. In questi casi è evidente che il regolamento è solo l’involucro, il documento, che riportato nel rogito notarile, assume valore contrattuale con la sottoscrizione delle parti.

Infatti, per titolo, tuttavia, non si intende il titolo del soggetto individuato come proprietario della terrazza, ma deve intendersi l’atto costitutivo del condominio – ossia il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali – ove questo contenga in modo chiaro ed inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato con il consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni. (Nel caso di specie, la Suprema Corte, pur rigettando il ricorso, ha corretto la motivazione della sentenza impugnata la quale aveva erroneamente dichiarato che, per ritenere la proprietà esclusiva della terrazza, sarebbe stato necessario produrre il titolo di proprietà, e cioè il contratto con il quale il condomino aveva acquistato il diritto di proprietà, perché, in mancanza, la terrazza doveva presumersi di proprietà comune – Cass. Ord. n. 27846/2023.

Il titolo contrario non è l’unico strumento che può escludere un bene dalle parti comuni di un edificio in condominio; i beni in comune, per essere considerati tali, devono anche avere la destinazione all’uso (comune) tipica di tali beni.

La presunzione di comunione di cui all’articolo 1117 c.c. scatta, in altri termini, sia per le parti nominativamente indicate nell’articolo stesso, sia per quelle indicate solo in via generica, solo se all’atto della nascita del condominio sussista la destinazione all’uso comune su cui si fonda la presunzione e se non sussista, a tale momento, un titolo contrario: occorre cioè tenere conto sia della situazione di fatto (destinazione) sia di quella giuridica (titolo) esistente al momento in cui, per effetto della scissione in almeno due parti della proprietà dell’edificio, viene a nascere il condominio»  .

È importante sottolineare la definizione temporale dello stato di fatto di cui si parla poiché esso attiene al momento della formazione del condominio (al suo momento genetico quindi), e solo a quello, restando ininfluenti i successivi sviluppi del fenomeno. Invero, gli atti successivi a tale primo frazionamento possono solo determinare mutamenti nella composizione del condominio (caso comune è quello in cui l’originario proprietario venda ad altri ulteriori appartamenti e piani) ma non influiscono affatto sulla sua formazione, cioè sulla sua nascita, che si verifica in occasione del primo frazionamento della proprietà dell’edificio. Per cui quando un bene che dovrebbe ritenersi comune a tutti i condomini (ex articolo 1117 c.c.) per le sue caratteristiche strutturali è destinato all’uso o al godimento solo di una parte dell’edificio, viene meno il presupposto per la contitolarità necessaria.

Verificato lo stato di fatto in cui il bene si trova, se cioè sia effettivamente destinato ad un uso (utilità) comune, si può passare all’analisi del titolo così come esige il richiamato articolo 1117: «è all’atto costitutivo del condominio, cioè alla prima vendita, che occorre fare riferimento onde accertare se sussista o meno titolo contrario alla presunzione di cui all’articolo 1117 c.c., cioè se da tale atto emerga una chiara ed univoca volontà delle parti di riservare esclusivamente ad uno dei condòmini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune  ; parimenti, come si è detto, è a tale momento che si deve fare riferimento per accertare se uno di tali beni risulti invece destinato all’uso specifico di un appartamento o piano.

In tale scia, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni ed i servizi elencati dall’art. 1117 cod. civ., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti “ex lege” in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini; pertanto, come è avvenuto nel caso di specie, non è sufficiente che la proprietà individuale risulti dal titolo di acquisto della parte che si rivendica proprietaria esclusiva del terrazzo, ma occorre che essa risulti dagli atti di acquisto degli altri condomini o dal regolamento condominiale che essi abbiano espressamente accettato in occasione del loro acquisto, sicché, in difetto di tale prova, la presunzione di condominialità è destinata a spiegare piena efficacia (Cass. n. 27363/2021).

registro contabilità condominiale

Il registro di contabilità In cosa consiste il registro di contabilità condominiale, il suo carattere essenziale e le conseguenze in caso sia mancante secondo le norme codicistiche e la giurisprudenza

Cos’è il registro di contabilità

Il registro di contabilità è uno degli elementi che il codice ritiene imprescindibili per la redazione di un corretto rendiconto consuntivo di gestione.

Tra le attribuzioni dell’amministratore di cui all’art. 1130 c.c., il n. 7) prevede espressamente l’obbligo di tenuta, anche in modalità informatizzate, del registro di contabilità.

All’interno del predetto registro devono essere annotati, in ordine cronologico, entro trenta giorni da quello dell’effettuazione, i singoli movimenti in entrata ed in uscita.

Tra gli elementi di cui si compone il rendiconto condominiale, questo registro è spesso trascurato. La prassi, sovente, mostra che esso non viene quasi mai allegato dagli amministratori e – talvolta – nemmeno redatto.

Carattere essenziale

Un’interpretazione strettamente letterale delle norme codicistiche, invece, ne delinea il carattere essenziale per i condomini e per l’amministratore.

Viene in rilievo, in primo luogo, l’art. 1130bis c.c., nella parte in cui prevede che il registro in questione sia uno dei componenti del rendiconto condominiale assieme al riepilogo finanziario ed alla nota sintetica esplicativa della gestione che indichi anche tutti i rapporti in corso e le questioni pendenti.

Tale disposizione deve necessariamente leggersi in combinato disposto con il primo periodo della stessa norma, onde comprenderne pienamente la ratio.

Quando il legislatore riformista, infatti, espressamente prevede che “il rendiconto condominiale contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve” stabilisce che gli stessi devono essere espressi in modo tale da consentirne l’integrale verifica.

Ed infatti, come abbiamo visto, è proprio nella chiarezza ed intelligibilità della rendicontazione che si rinviene il risultato perseguito dalla riforma, volto a consentire ai condomini-proprietari di esprimere in assemblea un voto “cosciente e meditato”.

Mancanza del registro di contabilità: conseguenze

Da ciò ne deriva che anche il registro di contabilità deve essere considerato uno degli elementi la cui mancanza, violando i predetti principi di chiarezza ed intelligibilità del rendiconto, vizia lo stesso in modo da rendere invalida la relativa delibera di approvazione.

Tutto quanto sopra è stato confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. VI/II n. 33038 del 20 dicembre 2018) in forza della quale il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione, rivestono i caratteri di elementi essenziali (a pena di annullabilità) del rendiconto ai sensi dell’art.1130bis c.c.

La presenza dei suddetti elementi all’interno del rendiconto da presentarsi con cadenza annuale, a cura dell’amministrazione, alla compagine condominiale, ha come obiettivo quello di consentire l’espletamento del diritto, sussistente in capo ai condomini, “all’informazione ed alla verifica del rendiconto” fornendo una conoscenza dei reali elementi contabili del bilancio condominiale. Ove il rendiconto non sia composto anche da tali elementi necessari ed i condomini non risultino informati sulla reale situazione patrimoniale del condominio relativamente alle entrate, alle spese ed ai fondi disponibili, ne deriva l’annullabilità della deliberazione assembleare di approvazione.

comunione beni

La comunione dei beni  Fonti e caratteri tipici della comunione dei beni. Uso e gestione del bene comune e scioglimento della comunione

Definizione di comunione

La comunione indica il fenomeno della contitolarità dei diritti, che ricorre quando più soggetti sono titolari di un unico diritto sul bene. Sul piano normativo, la definizione generale dell’istituto è fornita dall’articolo 1100 c.c., secondo cui la comunione sussiste quando «la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più soggetti», riferendosi alle sole ipotesi di contitolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento su cosa altrui.

Dall’articolo 1100 c.c. si ricava che gli elementi caratterizzanti della comunione sono:

  • l’unicità del bene comune. Il diritto di ciascun partecipante investe l’intera cosa comune. Si parla, quindi, di comunione pro indiviso (comunione su un bene indiviso), nella quale la cosa comune appartiene per intero a tutti i partecipanti;
  • la presenza di almeno due soggetti titolari di altrettanti diritti di eguale contenuto sul bene.

Il compartecipante può, però, anche rinunciare al suo diritto di comproprietà e, con la rinuncia, viene meno anche l’obbligo di corrispondere le spese per mantenere in vita la cosa (articolo 1104 c.c.).

In merito alla rinuncia «abdicativa» di un partecipante alla comunione, la Cassazione ha stabilito che la stessa rinuncia “ha una funzione satisfattiva liberatoria: ne consegue che il rinunciante, con la dismissione del proprio diritto (reale), si libera delle obbligazioni propter rem che vanno a carico dei rimanenti partecipanti”.

Il codice civile, agli articoli 1100 e seguenti, disciplina l’istituto della comunione ma nulla prevede in ordine all’oggetto di tale diritto; il primo comma dell’articolo 1103 c.c., però, stabilisce che «ciascun partecipante può disporre del suo diritto», avvalorando la tesi secondo la quale l’oggetto del diritto dei partecipanti alla comunione è il bene comune nella sua integralità e non una quota.

La quota, quindi, non è l’oggetto del diritto ma solo la misura di partecipazione agli ob-blighi e del diritto di disporre del bene attraverso la vendita, ma sicuramente non è la misura del potere di disporre del bene stesso.

Scopo della comunione è il mero godimento del bene (articolo 2248 c.c.) ed è questo elemento che la distingue dalla società in cui più persone si uniscono per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di ricavarne un lucro o guadagno (utile).

Le fonti della comunione

Avendo riguardo alla genesi della comunione, si possono individuare tre fonti principali:

  • il titolo;
  • la legge;
  • gli usi.

Il titolo

Il titolo è il contratto che esprime la volontà di più persone interes-sate a costituire una comunione che, proprio per tale motivo, è definita volontaria. Il titolo, oltre alla volontà di costituire e mantenere una comunione, può anche contenere le norme regolatrici della comunione stessa, norme che, in genere, prevalgono su quelle previste dalla legge (articolo 1100 c.c.) e che sono talvolta riportate negli atti di acquisto od in apposite convenzioni.

Il regolamento della comunione (articolo 1106 c.c.), che può essere approvato a maggioranza dai comunisti, può integrare od attuare le norme contenute nel titolo, ma non può sostituirsi ad esse.

La legge

Si ha comunione legale quando, in assenza di un titolo originario, la comunione trova il suo fondamento nella legge o perché trattasi di figure di comunioni speciali, come ad esempio la comunione forzosa del muro altrui (articolo 875 c.c.), espressamente previste dal diritto, ovvero di fattispecie quali, ad esempio, la comunione ereditaria che, per il solo fatto di verificarsi, vengono disciplinate ex lege dagli articoli 1101-1116 c.c.

Gli usi

Gli usi o consuetudini sono regole non scritte osservate dalla generalità dei consociati in modo costante ed uniforme per un congruo periodo di tempo, col convincimento che si tratti di norme giuridicamente vincolanti. Relativamente alla comunione essi rilevano nelle comunioni tacite familiari e nelle comunioni familiari montane. Per le prime (che ricorrono quando più membri della stessa famiglia, che vivono in comunanza di tetto e di mensa, cooperano, ciascuno con la propria attività, allo svolgimento di un’attività ricavandone i mezzi per il proprio sostentamento) bisogna far riferimento all’ultimo comma dell’articolo 230 bis c.c. che ammette il ricorso agli usi solo qualora non contrastino con le norme sull’impresa familiare. Per le seconde si fa riferimento all’articolo 10 della legge 1102/1971, che pone però gli usi, come fonte primaria, dopo gli statuti. Trattasi di istituti che trovano, ormai, scarsa applicazione.

Caratteri tipici della comunione

Il codice vigente delinea la comunione come istituto fondato sul concetto di contitolarità del diritto di proprietà o di un altro diritto reale.

Il primo carattere distintivo di tale istituto è la quota (articolo 1101 c.c., secondo comma), che rappresenta una parte ideale ed astratta dell’oggetto della comunione.

Nei rapporti interni, la quota rappresenta la misura del concorso «tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione»; nei rapporti esterni, la quota rappresenta, invece, il limite entro il quale il singolo può disporre del diritto (articolo 1103 c.c., primo comma).

La comunione, come istituto generale, ha carattere transitorio ed il codice stesso pre-vede che ciascun comunista ha la facoltà di chiederne lo scioglimento in qualsiasi mo-mento. Anzi, l’obbligo di rimanere nella comunione, derivante da esplicito patto in tal senso, è valido per non oltre dieci anni (articolo 1111 c.c., secondo comma).

L’assoluta mancanza di autonomia patrimoniale dei beni che costituiscono la comunione comporta tre effetti:

  • ogni comunista può disporre liberamente dei beni comuni;
  • i creditori personali del comunista possono rivalersi sui beni comuni, ovviamente nei limiti della quota del rispettivo debitore;
  • manca la previsione del beneficio della preventiva escussione dei beni comuni a fa-vore dei creditori della comunione.

Uso, gestione e disposizione del bene comune

Il comma 2 dell’articolo 1101 c.c. dispone che ciascun comunista concorre nei vantaggi e nei pesi della comunione in proporzione alla quota di cui è titolare.

A sua volta, l’articolo 1102 c.c. stabilisce che ciascun comunista può servirsi della cosa comune.

Dal combinato disposto degli articoli 1101 e 1102 c.c. si ricava che:

  • il singolo partecipante può usare e godere della cosa comune. In particolare, cia-scun comunista può godere della cosa comune in forma diretta, servendosi direttamente del bene comune, o in forma indiretta, attraverso l’acquisto dei frutti naturali e civili prodotti dal bene;
  • in mancanza di una diversa volontà dei comunisti, l’uso e il godimento della cosa da parte di ciascuno è proporzionale alla propria quota, in quanto ciascun comunista deve rispettare il diritto degli altri e non può goderne oltre quello proprio.

L’uso della cosa comune incontra, però, alcuni limiti:

  • nel servirsi della cosa comune, il compartecipe non può alterarne la destinazione economica originaria, né impedire agli altri partecipanti di farne uso secondo il loro diritto (articolo 1102, comma 1, c.c.). Ad esempio, il proprietario che occupa stabilmente una parte del cortile comune di un edificio mediante il parcheggio della sua autovettura, impedisce agli altri condomini di utilizzare lo spazio comune ostacolando, così, il libero e pacifico godimento degli altri comproprietari;
  • il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

Dette modalità di uso, però, non assumono carattere perentorio, ben potendosi stabilire delle deroghe: ad esempio, un uso basato su criteri di divisione spaziale (quale potrebbe essere la divisione di un giardino comune che viene frazionato in tante zone quanti sono i proprietari) o temporale (si pensi all’uso turnario dei posti auto). Il bene comune può essere addirittura ceduto in uso ad altri, nel qual caso, realizzandosi la costituzione di un diritto reale di godimento, è necessario il consenso unanime dei comproprietari (art. 1108 c.c., terzo comma).

Lo stesso dicasi per le attività di gestione fondate sul principio secondo il quale le deliberazioni approvate dalla maggioranza vincolano anche gli altri (articolo 1105 c.c., secondo comma), nel caso di decisioni su argomenti ricadenti nella sfera dell’ordinaria amministrazione. In tutti gli altri casi di straordinaria amministrazione, la maggioranza prescritta è quella dei due terzi del valore complessivo della cosa comune (Art. 1108 c.c., I co.).

Le iniziative individuali per la gestione della cosa comune non sono, quindi, consentite al di fuori di quelle necessarie per la conservazione od il miglior uso della stessa.

Per gli atti di disposizione del bene comune (vendita, donazione ecc.), l’articolo 1108 c.c., terzo comma, prevede la necessità del consenso unanime dei comunisti, quando si ha riguardo alla totalità del bene; mentre il singolo partecipante può disporre dello stesso diritto solo nei limiti della propria quota. Ciò vale sia per gli atti di alienazione o di rinuncia, sia per gli atti di costituzione di diritti reali limitati sulla cosa comune.

Lo scioglimento della comunione

La comunione si scioglie con la divisione, che può avvenire con una spartizione mate-riale delle cose che compongono il bene comune, ove sia possibile, oppure con la ripartizione della somma ricavata dalla vendita della cosa stessa.

Se i comunisti sono più di due, è ammesso uno stralcio di quota per chi vuole trarsi fuori dalla comunione.

In tema di scioglimento giova a questo punto ricordare la disciplina contenuta nel co-dice civile agli articoli 1111 e 1112 c.c.

La prima iniziativa individuale che incide sui diritti dei comunisti è la richiesta di sciogli-mento della comunione, che ognuno dei partecipanti può sempre proporre, ricorrendo, eventualmente, all’autorità giudiziaria in caso di opposizione degli altri contitolari.

Alla divisione della comunione si applicano, per espresso rinvio fattone dall’articolo 1116 c.c., le disposizioni sulla divisione ereditaria contenute negli articoli 713 e seguenti del codice civile. Anche in tale ipotesi, è da sottolineare, vi è un equo contempera-mento degli interessi (comuni ed individuali) operato dall’articolo 1111 c.c. primo comma, che affida all’autorità giudiziaria la facoltà di evitare lo scioglimento immediato della comunione nei casi in cui esso possa recare danno agli altri comunisti, stabilendo, così, una dilazione dello scioglimento stesso entro il limite dei cinque anni.

L’autorità giudiziaria può, addirittura, considerare irricevibile la richiesta di scioglimento nel caso in cui il particolare uso cui è destinato il bene comune non lo consenta (articolo 1112 c.c.). Ciò vale in particolar modo nel caso in cui si tratti di beni condominiali dove il legislatore ha voluto, imponendo tale divieto, salvaguardare il fondamentale aspetto di accessorietà o sussidiarietà del bene comune rispetto alla piena proprietà individuale cui è asservito.

Particolare cenno deve farsi a proposito della forma che deve assumere l’atto con cui è deciso lo scioglimento della comunione. Se l’atto scritto — a norma dell’articolo 1350 c.c. n. 11 — è necessario per lo scioglimento della comunione su beni immobili, esso non occorre, invece, per la semplice attribuzione di un godimento separato del bene comune, ferma rimanendo la comproprietà fra gli aventi diritto. Per quest’ultima ipotesi, è perfettamente valida anche una semplice convenzione verbale (Cass. 1428/1984).

Nel caso di proprietà pro indiviso di un edificio urbano, l’immobile può ritenersi comodamente divisibile, ancorché la sua divisione in natura comporti la costituzione di un condominio implicante di per sé la persistenza della comproprietà sulle parti comuni dello stabile.

Al fine di assicurare la piena imparzialità in sede di formazione delle porzioni, l’articolo 729 c.c., nel caso di quote uguali, prevede l’assegnazione mediante estrazione a sorte. Nel caso, invece, le porzioni siano disuguali, si procederà mediante attribuzione diretta all’avente diritto, con eventuale pagamento in denaro di conguagli. Il sistema dell’attribuzione diretta costituisce pur sempre eccezione alla regola, possibile, ad esempio, anche quando per effetto del sorteggio potrebbero determinarsi conseguenze (da identificare e precisare dal giudice di merito), tali da portare ad un frazionamento gravemente antieconomico dei beni comuni (Cass. 834/1986 e 16082/2007; Corte Appello Napoli, Sez. 2, 4167/2008).

condominio codice civile

Il condominio nel codice civile L’istituto condominiale secondo il codice civile: la personalità giuridica, le norme, la creazione e le caratteristiche di un condominio

L’istituto condominiale

Si ha condominio quando in un edificio coesistono proprietà esclusi-ve e parti comuni indivise, le une legate alle altre da un intimo nesso di reciproca complementarietà e funzionalità. Infatti, nel condominio, accanto ai piani o porzioni di piano di proprietà singola od esclusiva, coesiste anche uno status communionis su alcune parti dell’edificio che non sono altrimenti, per propria natura o per la funzione strumentale cui sono destinate, divisibili o attribuibili in proprietà esclusiva ai comunisti; si tratta di parti delle quali l’articolo 1117 c.c. fornisce un’ampia elencazione.

Tale indirizzo necessita di alcune precisazioni ed è tuttora valido an-che alla luce della recente riforma introdotta con L. 220/2012, che, come prima, si limita ad indicare i beni di proprietà comune (vedi testo articolo 1177 c.c., in Appendice normativa).

Esso trova conferma anche quando la Suprema Corte si è così espressa: «Il condominio negli edifici viene ad esistenza per la sola circostanza che la proprietà di piani o di porzioni di piano di un medesimo edificio appartenga a più titolari in proprietà esclusiva, a prescindere dalla circostanza che non vi siano locali comuni e che esistano distinti ingressi»  . Infatti, nel condominio vi saranno pur sempre i beni in comune, quali le fondamenta, i muri circostanti l’edificio ecc. definiti necessari perché sen-za di essi l’edificio non verrebbe nemmeno ad esistenza.

Le disposizioni riguardanti il condominio contenute nel codice civile (articoli 1117-1139) disciplinano l’istituto nella sola ipotesi in cui si è già in presenza di un edificio, nel senso che non si occupano affatto di tutte quelle altre ipotesi in cui, ad esempio:

a) due comproprietari di un terreno stipulano un contratto per la costruzione di un edi-ficio, ovvero;

b) quando uno solo di essi stipuli un contratto con i singoli acquirenti in cui si impegna a costruire e a vendere i singoli appartamenti realizzati.

La singolarità dell’istituto del condominio si evince dalla lettura dell’articolo 1117 c.c., da cui si ricava che il singolo condòmino, oltre ad essere proprietario esclusivo del suo appartamento, è anche comproprietario delle parti comuni. In altri termini, coesistono un regime di proprietà individuale dei piani o delle porzioni di piano (appartamenti) e un regime di proprietà collettiva sulle parti comuni (limitata, quest’ultima, dal concorso degli altri soggetti che ne sono titolari).

Tali peculiarità dell’istituto del condominio comportano che lo stesso, pur essendo re-golato dalle norme sulla comunione ordinaria, è disciplinato anche da norme apposite che integrano o derogano le prime.

Nel rapporto di accessorietà necessaria dei beni in comune rispetto a quelli in proprietà singola (gli appartamenti) vanno, poi, individuati i beni in comune, definiti:

a) necessari all’esistenza stessa del condominio, quali, ad esempio, le fondamenta, i muri circostanti l’edificio, il tetto ecc.;

b) eventuali, che come tali possono anche mancare, quali, ad esempio, i locali per la portineria, la casa del portiere, lo stenditoio, la sala riunioni ecc.;

c) accessori, quali l’ascensore, i pozzi, le cisterne, le fogne, le condutture ecc.

Parte della dottrina (Terzago), inoltre, identifica nel condominio una comunione sui generis, laddove l’elemento differenziatore sarebbe da ritrovare nel carattere di indivisibilità e di irrinunciabilità che hanno i beni in condominio. Tale indirizzo ha il merito di porre in risalto la disposizione di cui all’articolo 1139 c.c. nella quale testualmente: «Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale».

È vero, quindi, che il condominio è una particolare figura della comunione, ma la sua peculiarità è data dal rilievo che lo stesso codice ha voluto dare al legame tra beni in proprietà singola e beni comuni.

Così intendendo la specifica natura del condominio, è possibile capire anche l’evoluzione normativa che ha portato alla recente riforma (L. 220/2012), la quale ha esteso l’ambito di applicazione delle norme sul condominio.

Mentre, infatti, la disciplina codicistica, nella sua originaria formulazione, è essenzial-mente indirizzata al fenomeno del condominio inteso in senso verticale, relativo, cioè, ad un unico edificio diviso per piani, la nuova disciplina del condominio introdotta dalla L. 220/2012 si applica anche a tutti quei casi in cui più unità immobiliari o più edifici o addirittura più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti in comune ai sensi dell’articolo 1117 c.c.

La nuova disciplina, quindi si applica anche ai cd. condomini complessi o supercondomi-ni e ai cd. condomini orizzontali, strutture nate a seguito del continuo evolversi delle tecniche di progettazione e di esecuzione degli edifici e per l’esigenza di un più razio-nale sfruttamento dei suoli edificabili.

Si tratta di realtà che nel corso del tempo hanno dato vita ad una vasta produzione giu-risprudenziale, dato che i giudici si sono dovuti occupare dei problemi creati dalla na-scita di quei complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi corpi di fabbrica, dotati di autonomia strutturale, ma caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e servizi comuni a tutto il complesso edilizio.

Ora, invece, una risposta definitiva su quale sia la normativa applicabile (se quella della comunione o quella sul condominio) è data dal nuovo articolo 1117bis, a norma del quale le disposizioni di cui agli articoli 1117-1139 c.c. si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui «più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117».

Come si evince dal testo, è stata rivalutata l’importanza dell’esistenza dei beni in comune, che diventa l’elemento discretivo per stabilire quando si è in presenza di un «condominio» o meno, a prescindere dalla tecnica costruttiva usata. L’istituto condominiale, quindi, è da individuarsi per il nesso indissolubile tra i beni singoli e la necessaria presenza dei beni in comune.

La personalità giuridica del condominio

Il riconoscimento della personalità giuridica del condominio è rimasto un problema irrisolto.

Anche la recente riforma (L. 220/2012), infatti, nulla dispone in ordine al riconoscimento, in capo al condominio, della soggettività giuridica, nonostante una simile previsione — presente in diversi ordinamenti europei — fosse stata invocata da alcune delle più importanti associazioni che si occupano di gestioni immobiliari.

I fautori di questa tesi hanno evidenziato che nella nuova normativa sussistono diverse disposizioni che vanno in questa direzione come, ad esempio, il nuovo articolo 1117-ter laddove: «Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l’assemblea, con un nu-mero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio ed i quattro quinti del valore dell’edificio, può modificare la destinazione d’uso delle parti comuni».

Altri, ancora, fanno riferimento all’ipotesi in cui il condominio è un soggetto produttore di energia fotovoltaica, dove si rinviene l’esercizio di una vera e propria attività com-merciale con connessi adempimenti ai fini IVA ecc. Sul punto si è espressa l’Agenzia delle entrate con la risoluzione del 10 agosto 2012, n. 84/E che, ad un interpello pro-posto dal Gestore dei servizi energetici, ha risposto: «La sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi alla formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare allo scopo di conseguire risultati patrimoniali comuni, iden-tifica un contratto sociale. … Pertanto, sulla base di quanto sopra detto il suddetto ac-cordo individua una società di fatto tra i condòmini. … Restano esclusi dalla società di fatto i condòmini che non hanno approvato la decisione e che non intendono trarre vantaggio dall’investimento».

Tali normative non sono però sufficienti da sole a determinare l’insorgere della sogget-tività giuridica in capo al condominio: la prima perché trova il suo elemento giustifica-tore nella maggioranza qualificata prevista per le modificazioni sostanziali; la seconda perché si è fuori dal mero scopo di godimento proprio del condominio e si è di fronte allo sfruttamento dei beni in comune con uno scopo di lucro proprio delle società.

Per cui, anche se auspichiamo al più presto il riconoscimento, oggi, alla luce della nuova normativa, dobbiamo concludere con l’affermare che non si possa affatto parlare di soggettività giuridica del condominio.

Le norme in materia di condominio

Al condominio negli edifici si applicano gli articoli da 1117 a 1139 c.c., nonché una serie di disposizioni in materia di comunione per il rinvio espresso operato da quest’ultima norma.

In virtù di tale rinvio è innanzitutto applicabile la disposizione di cui al primo comma dell’articolo 1102 c.c., in forza della quale ciascun partecipante può servirsi del bene comune anche per un suo fine particolare (ad esempio, per l’apposizione di targhe sul portone d’ingresso)  , purché non sia alterata la destinazione dello stesso bene e non sia leso il pari diritto spettante agli altri condòmini (continuando nell’esempio riportato, una siffatta lesione potrebbe essere determinata dall’apposizione di targhe di vaste dimensioni, tali da inficiare il decoro del portone d’ingresso, ovvero impedire agli altri condòmini di apporre a loro volta altre targhe).

Si applicano, altresì, al condominio gli articoli 61-72 delle Disposizioni di attuazione del codice civile e le norme sul mandato (articoli 1703-1730 c.c.).

La creazione e le caratteristiche di un condominio

La creazione di un condominio può formare oggetto di un contratto su cosa futura. È frequente, infatti, la vendita di appartamenti ancora da costruire: viene così a realizzar-si un condominio «in fieri».

In concreto, i modi con cui si costituisce un condominio sono diversi:

a) il caso più ricorrente è quello in cui l’unico proprietario di un immobile trasferisce, con atto compravendita, il diritto di proprietà su una o più unità dello stesso edificio;

b) nel caso di edifici costruiti da cooperative, il condominio sorge solo dopo la stipula dei contratti di mutuo e l’assegnazione degli appartamenti.

La nascita di un condominio si ha anche quando viene a sciogliersi una comunione preesistente oppure è ricostruito uno stabile perito per almeno tre quarti del suo valo-re, oppure quando i partecipanti alla comunione della proprietà di un terreno delibera-no di costruire su di esso un edificio, le cui singole unità immobiliari siano servite da cose ed impianti indivisi, ma sempre quando viene ad esistenza l’edificio. Anche le sen-tenze che hanno qualificato il condominio come organo concordavano sul fatto che il condominio, quale ente di gestione capace di assumere validamente obblighi giuridici e la titolarità di diritti, sorge già con la redazione di scritture private di trasferimento che importino il frazionamento della proprietà esclusiva ed il trapasso dei singoli appartamenti.

Ancora, si è affermato che la costruzione di un edificio del quale siano proprietari più soggetti, ancorché non sia intervenuto il rilascio del certificato di abitabilità, è sufficiente per l’esistenza del condominio, con la conseguente applicabilità delle norme ad esso relative.

L’articolo 68 disp. att. c.c., anche a seguito della recente riforma (L. 220/2012), con-ferma che qualora non precisato dal titolo (l’atto costitutivo del condominio, regola-mento di condominio del costruttore ecc.) ai singoli partecipanti al condominio è attribuita una quota millesimale di proprietà sui beni in comune, data dal rapporto tra il va-lore della proprietà acquistata e quello dell’intero edificio.

La quota millesimale, oltre a vincolare gli uni con gli altri tutti i partecipanti alla proprietà, costituisce la misura del diritto di voto in assemblea e degli obblighi, intesi come partecipazione alle spese, che la cosa comune comporta.

Non si deve assolutamente confondere il diritto di comproprietà con il diritto di uso del bene comune che è, invece, riferito all’intero bene ed è assoggettato al principio dell’uso paritario, nel senso che ognuno può usare del bene comune purché permetta agli altri di fare altrettanto.

Il condominio minimo

Per condominio minimo (o piccolo condominio) si intende quella collettività condomi-niale composta da due soli partecipanti. In questo caso si discuteva, in dottrina e giuri-sprudenza, circa la normativa da applicare. Era controverso, in altri termini, se al con-dominio minimo si applicavano le norme del condominio o quelle della comunione.

La recente riforma del condominio (L. 220/2012) ha risolto la questione prevedendo, all’articolo 1117bis, introdotto ex novo, che le norme in materia di condominio si ap-plicano in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117. Non vi è dubbio, quindi, che anche alla fattispecie del condominio minimo sono applicabili le norme in materia di condominio.

Anche la questione relativa alla disciplina applicabile al condominio minimo è stata og-getto di diversi arresti giurisprudenziali, che è opportuno accennare.

La Cassazione, infatti, dopo aver affermato l’esistenza del condominio anche nel caso di condominio minimo, successivamente ebbe a mutare il suo indirizzo ritenendo che in presenza di due soli condòmini non fosse possibile costituire l’assemblea.

In tempi più recenti, invece, la Cassazione ha nuovamente mutato il suo indirizzo, rite-nendo che nel caso in cui i proprietari dell’edificio fossero soltanto due, si applicassero le norme del condominio eccezion fatta per le norme relative al funzionamento dell’assemblea, disciplinata, invece, dagli articoli 1104 s.s. c.c.  .

Da ultimo, infine, La Cassazione a Sezione Unite ha confermato l’applicazione al con-dominio minimo delle norme sul condominio, incluso l’articolo 1136 c.c. in tema di as-semblea, con la conseguenza che in caso di mancato raggiungimento dell’unanimità, sarebbe stato necessario ricorrere al giudice a norma degli articoli 1105 e 1139 c.c.

Il condominio parziale

La riforma non ha toccato l’istituto del «condominio parziale». Esso si ha quando i beni comuni sono destinati all’utilizzazione di solo una parte dei condomini. In questo caso è necessario stabilire se i beni siano comuni anche ai condómini che di fatto non li utiliz-zano oppure siano comuni soltanto ai condómini che li utilizza-no. Da qui la definizione di «condominio parziale»; la parzialità risiede, in altri termini, nel fatto che solo ad una parte dei con-domini spetterebbe la comproprietà di tali beni.

Il tema è stato molte volte analizzato più con riguardo a specifici casi che in relazione a principi generali come conferma il seguente ri-lievo giurisprudenziale   secondo cui «Il condominio parziale raffigura una categoria radicata nell’esperienza e riconosciuta dalla giurisprudenza la quale, piuttosto che della definizione del principio, si occupa della definizione dei casi di specie».

Tale fattispecie di condominio parziale viene ammessa sulla base della constatazione che: «Indipendentemente dal titolo, nell’ambito della più vasta contitolarità, si ammette la costituzione per legge dei cosiddetti condomini parziali sul fondamento del collegamento strumentale tra i beni: vale a dire, sulla base della necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero della destinazione all’uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari», ed esplicitamente: «Per la verità, l’asserto che la proprietà comune appartenga necessariamente a tutti i partecipanti e non si frazioni, neppure in casi eccezionali, se non in virtù del titolo, non è più condiviso e, in effetti, non regge alla critica, fondata sulla ricognizione non aprioristica dei dati positivi».

Se questa è la tesi di ammissibilità del condominio parziale non mancano posizioni nettamente contrarie sostenute da notevoli argomenti.

In primo luogo, si deve constatare che la legge si riferisce esplicita-mente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto.

Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio. Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui tali beni sono comuni anche se solo alcuni condomini li utilizzano.

In realtà, è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressa-mente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del di-ritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servi-zi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal col-legamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano». La Cassazione   determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le co-se, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’articolo 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà, se si legge il comma in questione  , non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui questa norma non disciplina affatto la parzialità della titolarità: ben potrebbe intendersi, la norma in commento, nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta, comunque, in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di cui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde all’interrogativo sottolineando come il terzo comma dell’articolo 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddivido-no tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente»; tanto è vero che: «Posto che l’articolo 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’articolo 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’articolo 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: «In realtà, l’articolo 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della pre-visione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con al-cune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede, la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito di-vieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

A questo punto, però, non si può fare a meno di richiamare un’ulteriore argomento, su cui si basa la tesi negatrice della possibilità di un condominio parziale, individuato nell’articolo 61 disp. att. c.c., il cui primo comma recita: «Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato».

Questa norma è utilizzata per negare la possibilità di un condominio parziale in base ad un articolato ragionamento che si propone di seguito.

Il comma primo dell’articolo 61 disp.att. c.c., si sostiene, disciplina l’ipotesi di scioglimento di un condominio quando questo sia costituito da parti, ciascuna delle quali abbia le «caratteristiche di edificio autonomo»; allora, se il condominio separato fosse una fattispecie normalmente realizzabile (sulla base del criterio di utilizzabilità dei beni comuni ad alcuni soltanto dei condomini), tale norma non sarebbe necessaria perché se è lecito il condominio parziale deve essere, a maggior ragione, lecito dividere un condominio in due se le due parti sono, in sostanza, edifici autonomi. Il comma primo dell’articolo 61 disp. att. c.c. sarebbe, in altri termini, superfluo e inutile.

Tale norma è, invece, utile proprio perché il legislatore non aveva previsto il condominio parziale e perciò lo dichiara espressa-mente realizzabile nei casi in cui le diverse parti abbiano «caratteristiche di edificio autonomo».

Fin qui la tesi negatrice del condominio separato che utilizza la previsione del comma primo dell’articolo 61 disp. att. c.c. con l’intento di dare significato alla sua previsione, ma tale argo-mento risulta in realtà non ben congegnato e, probabilmente, non del tutto pertinente al tema in oggetto.

Il richiamo all’articolo 61 disp. att. c.c. in merito a fattispecie di condominio parziale è inopportuno per una serie di rilevi.

In primo luogo, se si legge anche il comma secondo dell’articolo 61 dis. att. c.c.  , si comprende il meccanismo di funzionamento di tale previsione: lo scioglimento del condominio (propedeutico alla formazione dei diversi condomini limitati ciascuno ad una parte dell’originario edificio) deve essere deliberato dalla maggioranza degli intervenuti all’assemblea (dell’originario unico edificio) che rappresenti al contempo almeno la metà del valore dell’edificio ex articolo 1136 comma secondo c.c. Se tale maggioranza non c’è, la norma prevede la decisione dell’autorità giudiziaria in base a domanda di un terzo dei comproprietari della parte di edificio che si vuole distaccare dal resto. Come si vede, tale fattispecie riposa sulla volontà dei condomini e, certamente, non si riferisce a tutti i condomini ma ad una parte (benché considerevole) degli stessi. La nascita dei diversi condomíni ex articolo 61 disp. att. c.c. presuppone, allora, la volontà (di una parte) dei condómini.

Il condominio parziale, invece, trova la sua giustificazione in uno stato di fatto oggettivo (criterio di utilizzazione e di utilizzabilità dei beni a favore soltanto di alcuni condomini) non influenzabile dalla volontà dei condomini: nessun condòmino, ad esempio, potrebbe adire l’autorità giudiziaria per affermare che un bene non collegato (per utilizzazione o utilizzabilità) al proprio appartamento ricada anche nella sua proprietà condominiale. Nel condominio parziale, infatti, i beni sono in condominio ai proprietari degli appartamenti che li utilizzano e tale stato di fatto non può essere modificato dalla volontà dei condomini; il collegamento è in re ipsa e, come detto, nasce automaticamente per cui non c’è neanche bisogno della manifestazione di volontà delle parti né, tanto meno, di una pronuncia giudiziaria.

Differenti risultano quindi le ipotesi del condominio parziale e quella ex articolo 61 disp.att. c.c. in base all’analisi genetica e strutturale delle due fattispecie ma vi sono altre considerazioni in proposito. È certo che l’ipotesi del condominio parziale riposa, da un lato, nella necessità oggettiva della sua esistenza (indipendenza dalla volontà dei condomini e sussistenza sulla base di un oggettivo e verificabile collegamento che sorge tra un bene e gli appartamenti al cui migliore godimento quel bene è destinato) e dall’altro sul fatto che il condominio resta unico ed al suo interno alcuni beni sono in comune soltanto ad alcuni condomini.

In base a questa seconda caratteristica si può affermare, insieme alla Cassazione, che: «Ammesso dunque che, nell’ambito di un edificio diviso in piani o porzioni di piano, possono sussistere proprietà comuni di cose, di impianti e di servizi limitate soltanto ad alcuni condomini, conviene ricordare che il condominio parziale postula che il condominio originario non si frantumi in nuovi, distinti condomìni».

Questa premessa porta alla conseguente riflessione: «La figura del condominio parziale, invero, si distingue rispetto alla ipotesi della separazione dei condomini disciplinata dagli articoli 61 e 62 disp.att. c.c. almeno per due ragioni:

  • per i presupposti di fatto, posto che il condominio parziale sussiste anche quando non è possibile procedere alla separazione, perché la parte dell’edificio — in cui sono situate le cose, gli impianti ed i servizi comuni collegati soltanto con alcune delle unità immobiliari — non presenta le caratteristiche di parte o di edificio autonomo (è il caso delle scale e dell’ascensore, che non servono i locali con accesso soltanto dalla strada);
  • per il fatto costitutivo: il condominio parziale insorge «ope legis» ogni qual volta sussistono i presupposti, configurati dalla relazione di accessorio a principale, in concreto tra le singole unità immobiliari e determinate cose, impianti e servizi di uso comune, e non v’è necessità del procedimento di separazione che si svolge in assemblea o davanti all’autorità giudiziaria»  .

Come si vede, i precedenti argomenti, sulla base della rilevata differenza tra il condominio parziale ed il condominio separato ex articolo 61 disp. att. c.c., ci fanno concludere che quest’ultima ipotesi non implica affatto il disconoscimento della prima poiché esse sono estremamente differenti tra loro.

Quanto detto conferma la possibilità di un condominio parziale che esiste solo per alcuni beni e soltanto tra i condomini che tali beni utilizzano; tale condominio parziale non elimina affatto il condominio complessivo il quale continua a sussistere, tranne che per la gestione di quei determinati beni la cui titolarità resta a favore solo di alcuni condomini i quali conseguentemente saranno gli unici a sopportare le relative spese. Proprio per questo motivo il condòmino che in sede di riparto delle spese fatte dall’amministratore ritenga che esse non lo riguardino, potrà chiedere al giudice, con una azione di accertamento ex articolo 1123 c.c., che venga dichiarata la mancanza dell’obbligo al pagamento.

È proprio la disposizione di cui all’art. 1123, ultimo comma, c.c. che, nel prevedere beni destinati a servire una parte dell’edificio, riguarda proprio la fattispecie del condominio parziale. La disposizione in esame statuisce che le spese relative alla loro manutenzione sono ripartite solo fra i condomini che ne traggono utilità, i quali non possono che identificarsi con i condomini facenti parte del condominio parziale: essendo gli unici comproprietari del bene devono sopportarne integralmente i relativi oneri.

Il supercondominio

Nell’esperienza contemporanea, e non solo nelle moderne città metropolitane, la realtà costruttiva presenta spesso edifici contigui, autonomi, aventi una serie di servizi in comune (riscaldamento centralizzato, parco giochi ecc.) ovvero di beni in comune (viali di accesso, cortili ecc.). Lo scopo di questi complessi edilizi è, ovviamente, lo sfruttamento più razionale possibile delle costruzioni.

Vi è subito da dire che l’articolo 1117bis c.c., introdotto ex novo dalla legge di riforma (L. 220/2012), nel definire l’ambito di applicabilità delle disposizioni sul condominio ha oramai chiarito che detta normativa si applica in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117 c.c. e quindi anche al supercondominio.

Fino alla riforma, l’inquadramento della figura tipica del supercondominio era un problema che si tendeva solitamente a risolvere in un’alternativa tra un’estensione della normativa sul condominio negli edifici ed un’applicazione diretta della normativa generale sulla comunione.

La Cassazione, però, in tempi recenti aveva già affermato espressamente l’applicabilità al supercondominio delle norme sul condominio negli edifici, e non già quelle sulla comunione in generale, con la conseguente applicabilità della presunzione legale di condominialità anche ove non si tratti di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni stabilmente ed oggettivamente destinati all’uso o al godimento di tutti gli edifici.

Va qui precisato che per supercondominio si intende la fattispecie legale che si riferisce ad una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomìni, ma compresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall’esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni (quali il viale d’accesso, le zone verdi, l’impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, eccetera) in rapporto di accessorietà con i fabbricati. Ai fini della costituzione di un supercondominio non è necessaria nè la manifestazione di volontà dell’originario costruttore, nè quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente, come si è detto, che i singoli edifici abbiano materialmente in comune alcuni impianti o servizi ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 1117 cod. civ. Pertanto, al supercondominio si applicano, in toto, le norme sul condominio, anzichè quella sulla comunione. In particolare, al supercondominio si applicano le disposizioni dettate dall’art. 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione e formazione dell’assemblea e calcolo delle maggioranze (Cass., 7286/2006).

Le delibere dell’assemblea generale del supercondominio hanno efficacia diretta ed immediata nei confronti dei singoli condomini degli edifici che ne fanno parte, senza necessità di passare attraverso le delibere di ciascuna assemblea condominiale (Cass., 15476/2001). In particolare, laddove esiste un supercondominio, devono esistere due tabelle millesimali: la prima riguarda i millesimi supercondominiali, e stabilisce la spartizione della spesa non tra i singoli condomini, ma tra gli edifici che costituiscono il com-plesso; la seconda tabella è quella normale ed interna ad ogni edificio.

La gestione del supercondominio

Nel caso in cui un complesso residenziale sia costituito da distinti fabbricati, ciascuno degli edifici integra un condominio distinto, del quale fanno parte i soli proprietari delle unità abitative ivi ubicate, che è competente a deliberare in merito alla gestione ed amministrazione di quelle parti dello stabile che sono destinate all’uso ed al godimento comune.

Invece, per quel che concerne i beni ed i servizi comuni a tutti i fabbricati costituenti il complesso residenziale, sussiste un ulteriore supercondominio deputato a provvedere alla loro gestione attraverso un’assemblea alla quale hanno titolo per partecipare tutti i proprietari delle unità ubicate nel complesso edilizio  .

Le norme codicistiche dirette ex se a disciplinare l’istituto del condominio trovavano automatica applicazione anche nel caso del supercondominio. Infatti, si ritenevano applicabili ai beni o servizi del supercondominio le norme sul condominio degli edifici e, segnatamente, la presunzione di comunione dettata dall’articolo 1117 c.c. nonché le disposizioni dettate dall’articolo 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione e formazione dell’assemblea, nonché di calcolo delle maggioranze da determinare avendo riguardo agli elementi reali e personali del supercondominio configurati, rispettiva-mente, da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i loro proprietari.

Invece, l’articolo 67 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile, nella nuova versione introdotta dalla legge di riforma (L. 220/2012), ha dettato delle disposizioni in materia di assemblea che sono parzialmente diverse rispetto alla normativa precedente e che occorre sicuramente tener presente nella gestione di un supercondominio.

A norma del terzo comma dell’articolo 67 disp. att. c.c., nei casi di cui all’articolo 1117bis c.c. (e quindi anche del supercondominio), quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, c.c., il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore. In mancanza, ciascun partecipante può chiedere che l’autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio.

Qualora alcuni dei condominii interessati non abbiano nominato il proprio rappresentante, l’autorità giudiziaria provvede alla nomina su ricorso anche di uno solo dei rap-presentanti già nominati, previa diffida a provvedervi entro un congruo termine. La diffida ed il ricorso all’autorità giudiziaria sono notificati al condominio cui si riferiscono in persona dell’amministratore o, in mancanza, a tutti i condomini.

La norma in esame continua sancendo che ogni limite o condizione al potere di rappresentanza si considera non apposto. Il rappresentante risponde con le regole del mandato e comunica tempestivamente all’amministratore di ciascun condominio l’ordine del giorno e le decisioni assunte dall’assemblea dei rappresentanti dei condomini.

All’amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea.

Dalla lettura della norma si evince che uno degli obiettivi perseguiti dalla riforma sia stato quello di fare in modo che i supercondomini funzionassero effettivamente, anche se è stata introdotta la nuova figura del rappresentante.

Tali disposizioni, inoltre, rendono più funzionali le assemblee e, in particolare, facilitano la scelta dell’amministratore ed ogni altra decisione che riguardi i beni comuni a tutti i fabbricati.

La multiproprietà

La multiproprietà consiste nell’attribuzione, ad una pluralità di soggetti, del diritto di utilizzo esclusivo e periodico di un medesimo immobile, secondo un avvicendamento temporale prefissato al momento dell’acquisto, in modo che ciascun titolare abbia la disponibilità esclusiva del bene a turno e per un periodo di tempo limitato, il che spiega come da parte di qualcuno si sia parlato di «proprietà periodica» o di «proprietà turnaria».

L’essenza dell’istituto è normalmente costituita da un unico edificio con più unità immobiliari, ciascuna delle quali viene assegnata in godimento ad una persona o ad un nucleo familiare, ma è chiaro che la cd. proprietà periodica può riguardare anche case unifamiliari, come spesso accade nei luoghi di villeggiatura.

Il fenomeno si concreta nel trasferimento, da parte del costruttore (o solo del venditore), di un singolo appartamento a diversi soggetti, i quali si considerano tutti proprietari ed acquistano il diritto ad usare dell’appartamento e delle parti comuni dell’edificio, ciascuno per un ben preciso e determinato periodo dell’anno, trascorso il quale, tale diritto «affievolisce», per riconsolidarsi poi nel medesimo periodo di ogni anno successivo.

Ogni problema di inquadramento giuridico della multiproprietà è stato risolto con l’espressa previsione di cui al nuovo articolo 1117 c.c., così come modificato dalla L. 220/2012.

La norma, infatti, prevede espressamente che «sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo».

Con tale disposizione è stata eliminata ogni incertezza circa la categoria di norme applicabili alla multiproprietà, se quelle del con-dominio degli edifici o quelle della comunione.

Volendo ripercorrere gli indirizzi che fino ad ora si erano presentati, si deve per prima cosa far riferimento al fenomeno della multiproprietà come una tradizionale situazione di comunione, nella quale ciascun partecipante sarebbe titolare di una quota indivisa di comproprietà, con diritto di godimento «turnario» predeterminato dal titolo di acqui-sto (normalmente l’alienante predispone un regolamento della comunione con il quale disciplina il godimento turnario tra i multiproprietari).

Il diritto di multiproprietà sarebbe un diritto reale (non personale come l’uso e l’abitazione) e quindi trasferibile.

Tale impostazione è stata sottoposta a critiche rigorose, basate essenzialmente sulla non riconducibilità, al tipo di comunione accolto dal codice civile, di una situazione di comproprietà in cui:

  • sarebbe immodificabile la destinazione e inammissibile la divisione della cosa comune, mentre la normativa del codice civile prevede la possibilità di mutare, con apposite maggioranze, la predetta destinazione, nonché la facoltà, per ciascun partecipante alla comunione, di domandarne in qualsiasi momento lo scioglimento;
  • non opererebbe il meccanismo di espansione della quota nel caso di rinuncia o di astensione dal godimento da parte di uno dei multiproprietari;
  • l’uso turnario, da mera modalità, peraltro solo eventuale, di esercizio della facoltà di godimento della cosa comune, assurgerebbe ad aspetto essenziale e indefettibile dell’istituto, qualificando l’oggetto stesso dell’acquisto in multiproprietà.

Si è pensato, allora, di qualificare la multiproprietà come una speciale forma di proprietà, caratterizzata da una situazione di concorrenza di diritti (fra loro autonomi) piuttosto che di contitolarità di un unico diritto, parlandosi, al riguardo, di «proprietà temporanea» oppure di «proprietà su una frazione spazio-temporale del bene».

Ma simili costruzioni si fondano sull’ammissibilità — quantomeno opinabile (se non ad-dirittura inaccettabile) alla luce della nozione di proprietà assunta dal vigente ordina-mento — di un concorso di autonomi diritti di proprietà su uno stesso bene.

Ancora più azzardato, infine, è il passo di avvicinare la posizione del multiproprietario a quella dell’usufruttuario, ed altrettanto va detto per il tentativo di qualificare la multi-proprietà come diritto reale atipico di godimento.

Il contenuto del diritto di multiproprietà

Il diritto del multiproprietario è un diritto di godimento individuale e non collettivo nonché limitato ad un certo periodo dell’anno.

Il multiproprietario non può godere del bene a proprio piacimento ma deve usarne in modo conforme alla destinazione fissata nel contratto di acquisto, che solitamente è quella di abitazione per le vacanze. Il multiproprietario, quindi, non può di-struggere o alterare il bene, deve curarne la manutenzione (ordinaria ed eventualmente straordinaria) e provvedere, du-rante il periodo di godimento, alla sua custodia, impedendo molestie e danneggiamenti ad opera di terzi.

Il multiproprietario può, sia pure limitatamente al periodo di disponibilità, costituire sul bene diritti personali di godimento e in particolare può locarlo. Non sembra, invece, ammissibile la costituzione di diritti reali di godimento (con l’eccezione probabilmente dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione), i quali presuppongono una permanenza che è incompatibile con il sistema turnario. Il diritto di multiproprietà è trasmissibile per atto tra vivi e per causa di morte.

La normativa applicabile

Già prima della recente riforma, a prescindere dalla definizione della multiproprietà, ciò che più rilevava era che la giurisprudenza e la dottrina, che riconducevano la multiproprietà all’istituto della comunione, ritenevano già, comunque, applicabili a questa le norme sul condominio.

In giurisprudenza, in particolare, si è qualificata la multiproprietà come «un condominio non avente carattere assoluto, in quanto oggetto di autolimitazione reciproca preventiva da parte dei multiproprietari» , ritenendo applicabili le norme sulla obbligatorietà della nomina dell’amministratore da parte dell’assemblea e sulla durata massima della carica (articolo 1129, primo e secondo comma, c.c.), nonché la disciplina sulla revoca dell’amministratore da parte dell’autorità giudiziaria (articolo 1129, terzo comma, c.c.) sul rilievo che «la multiproprietà di singole unità immobiliari nell’ambito di un complesso edificale residenziale non importa alcuna deroga all’applicazione della disciplina sul condominio negli edifici per quanto afferisce alle parti e ai servizi comuni di utilità generale all’intero edificio»  .

Nella disciplina del condominio, del resto, è espressamente prevista l’ipotesi che un’unità immobiliare appartenga in proprietà indivisa a più persone (articolo 67, secondo comma, disp. att. c.c.), sicché può ritenersi già tipizzata la fattispecie mista di comunione e condominio, la prima riferita ai locali «principali» in godimento esclusivo, il secondo ai beni e servizi «strumentali» rispetto ai primi.

In linea con tale indirizzo il legislatore della riforma del 2012 ha sciolto ogni dubbio con l’espressa previsione di cui al nuovo articolo 1117 c.c., il quale espressamente fa rientrare nella proprietà comune condominiale anche l’ipotesi della multiproprietà.

La multiproprietà riscritta dal Codice del turismo

La disciplina della multiproprietà immobiliare è contenuta nel D.Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) ed è stata recentemente rimaneggiata dal D.Lgs. 79/2011 (Codice del Turismo).

Il contratto di multiproprietà è definito come un contratto di durata superiore a un anno tramite il quale un consumatore acquisisce, a titolo oneroso, il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione.

Si tratta di una definizione che, da un lato sottolinea uno dei due aspetti del diritto di proprietà (facoltà di godimento e di disposizione del bene) e, dall’altro, consente di estendere la multiproprietà ad ogni fattispecie nella quale sia individuabile un diritto di godimento concesso a titolo oneroso, anche in mancanza di un diritto di proprietà: si pensi, ad esempio, al contratto di comodato oneroso, alla locazione pluriennale ecc.

Le informazioni contrattuali che devono essere fornite, in maniera chiara e comprensibile, al consumatore prima che resti vincolato da un contratto o da un’offerta, devono essere accurate e sufficienti a realizzare la finalità informativa. Le informazioni sono fornite a titolo gratuito dall’operatore su carta o altro supporto durevole facilmente accessibile al consumatore, sono redatte nella lingua italiana e in una delle lingue dello Stato dell’Unione Europea in cui il consumatore risiede o di cui è cittadino. Il contratto deve essere redatto per iscritto, a pena di nullità.

Prima della conclusione del contratto, l’operatore informa il consumatore sulle clausole contrattuali relative al diritto di recesso, la durata del periodo di recesso e il divieto di versare acconti durante il periodo di recesso, le quali devono essere sottoscritte separatamente dal consumatore.

È riconosciuto al consumatore un periodo di 14 giorni (naturali e consecutivi) per recedere, senza specificare il motivo, dal contratto di multiproprietà.

mediazione in condominio

Mediazione in condominio: le maggioranze necessarie Quali sono le maggioranze necessarie per l'approvazione della conciliazione in materia condominiale

Maggioranze necessarie per la mediazione

E’ l’assemblea condominiale l’organo competente ad approvare la conciliazione. Riguardo alla maggioranza necessaria per approvare un accordo transattivo, prima della riforma, era applicabile l’art. 1136, co. 4° c.c. che rinviava alla maggioranza del secondo comma, ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio. La norma fa riferimento alle liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore e, se l’assemblea può deliberare su una controversia, è legittimata anche a transigere detta controversia.

Tale interpretazione era confermata dall’art. 71 quater co. 5° delle disp. att. c.c., ante riforma, dettato in materia di mediazione, in base al quale la proposta di mediazione doveva essere approvata dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136 c. 2 c.c. (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio).

Secondo il nuovo art. 71 quater delle disp. att. al codice civile (modificato dalla riforma Cartabia), invece, per sottoscrivere l’accordo conciliativo occorrono le maggioranze qualificate di cui all’articolo 1136 del codice.

La novella legislativa ha eliminato il richiamo specifico al 2° comma dell’art. 1136 c.c. ovvero almeno la maggioranza dei presenti in assemblea e che rappresentino almeno la metà dei millesimi (500/1000) del condominio. La novella facendo riferimento alle diverse maggioranze previste dall’art. 1136 c.c. – intende perseguire, chiaramente, una ulteriore semplificazione in quanto molte fattispecie in condominio possono essere approvate con la maggioranza dei condomini  presenti che raggiungano almeno un terzo dei millesimi e mi riferisco a tutti quei casi che possono farsi rientrare nella gestione ordinaria esempio: la manutenzione dei beni in comune, le piccole riparazioni, la stessa approvazione del rendiconto.

Quando è necessaria l’unanimità dei consensi

Con la precisazione che esistono, tuttavia, dei casi in cui le deliberazioni da assumere prevedono l’unanimità dei consensi e, cioè, quando si tratta di diritti indisponibili.

Difatti, laddove la lite abbia ad oggetto i diritti reali comuni (ad esempio, la proprietà di una parte del condominio) la transazione può avvenire solo con il consenso di tutti i partecipanti, così come è necessaria l’unanimità anche per gli atti di cessione dei beni comuni o la costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni.

Nel caso della stipulazione di una “conciliazione” o “transazione” da parte del condominio consolidata giurisprudenza richiede necessariamente l’unanimità dei consensi qualora il relativo oggetto riguardi “diritti reali” (cfr. Cass. 13 aprile 2016 n. 7201; Cass. 25 gennaio 2016 n. 1234) e, per l’effetto, anche per un accordo di conciliazione del medesimo contenuto e/o natura:  “Il consenso unanime di tutti i condomini, per concludere una transazione tra il condominio ed un terzo, è necessario esclusivamente, ai sensi dell’art. 1108, comma 3, c.c., solo quando la transazione stessa abbia ad oggetto i diritti reali comuni” (Cass. 13 aprile 2016 n. 7201).

 

videosorveglianza condominio

Videosorveglianza in condominio Le regole da rispettare per l'installazione di un impianto di videosorveglianza in condominio

La delibera assembleare

Con la legge n. 220/2012 (riforma del condominio), è stato introdotto l’art. 1122 ter c.c., secondo cui “le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 c.c.”, ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Premesso che, secondo il GDPR artt. 5 e 6,  l’autorizzazione al trattamento dei dati o è concessa direttamente dalla legge ovvero vi è il consenso dell’interessato, la fonte normativa di cui all’art. 1122 ter c.c. stabilisce che per poter trattare i dati ( e per dati occorre intendere anche le immagini in quanto loro mezzo è possibile identificare inequivocabilmente una singola persona)) a mezzo l’installazione di un impianto di sorveglianza occorre una delibera assembleare assunta con la maggioranza di cui all’art. 1136 II comma c.c. Quest’ultima  (la delibera) funge quindi da fonte della legittimazione all’installazione concretizzando il consenso specificatamente richiesto.  In mancanza, il trattamento deve ritenersi illecito. (E’ quanto ha deciso il Garante con il provvedimento del 16 dicembre 2023 ritenendo illecita l’installazione di telecamere in un condominio in mancanza di autorizzazione assembleare e conseguentemente ha qualificato come titolare l’amministratore e come tale gli ha irrogato la sanzione di € 1.000,00).

I requisiti della delibera

L’analisi di quale sia la corretta procedura per l’installazione delle telecamere in un condominio non può non tenere contro oltre che del dato normativo del codice civile e del cd. GDPR (D.Lgs. n. 679/2016) anche dell’analisi dei casi fatta dalla giurisprudenza e delle elaborazioni e provvedimenti del Garante.

Ciò posto, la prima considerazione a farsi è quella relative alle esigenze ed ai diritti che in tale fattispecie debbono porsi in correlazione:

  • da un lato la tutela del patrimonio, dei beni e della proprietà condominiale, nonché la tutela dell’integrità fisica delle persone e,
  • dall’altro, al diritto della riservatezza, alla difesa della vita privata (vedi articolo 8 Convenzione europea diritti dell’uomo) ed alla protezione dei dati personali.

ll dibattito si è sempre sviluppato, pertanto lungo la direttiva delle condizioni di liceità dell’installazione di tali impianti, in relazione alle finalità di protezione della compagine condominiale, nel rispetto del diritto alla riservatezza.

A dirla con la Suprema Corte (Cass. Ord. n. 14969 del 11 maggio 2022) l’installazione di questi impianti “è ammissibile solo in relazione all’esigenza di preservare la sicurezza di persona e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da illeciti già verificatisi”. Né “deve avere una funzione meramente sostitutiva rispetto ad altre misure di norma utilizzate per preservare la sicurezza delle persone e dei beni con valutazione da eseguire in base agli elementi specifici di ciascuna situazione”.

In virtù di detti presupposti la delibera in questione è da definirsi a contenuto vincolato. Nel senso che essa dovrà necessariamente prevedere:

  • L’autorizzazione all’installazione delle telecamere per il controllo dei soli spazi comuni
  • Modalità e finalità del trattamento

In pratica nella stessa delibera di autorizzazione occorrerà prendere posizione indicando preliminarmente le finalità del trattamento (che possono riassumersi nella tutela del patrimonio comune e anche della singola proprietà da atti vandalici e da furti oltre che della tutela dei condomini da atti lesivi della persona fisica e di rapina, ecc.), ma occorrerà anche dare atto concretamente di precedenti specifici che giustificano il ricorso alla detta installazione di telecamere.

  • Tempi di conservazione delle immagini

Usualmente tra le 24 e le 48 ore salvo necessità specifiche da indicarsi e giammai in maniera superiore ai 7 giorni. Oltre i quali è necessaria l’autorizzazione del Garante.

  • Individuazione dei soggetti autorizzati alla loro visione

La detta delibera dovrà altresì indicare il responsabile dei dati. Usualmente l’amministratore cui dovrà essere però conferito apposito incarico. In maniera da renderlo “responsabile”.

Anche nel caso di nomina di una ditta esterna specializzata nel trattamento dei dati come responsabile occorrerà che l’assemblea autorizzi espressamente l’amministratore a detta nomina del responsabile esterno ai sensi e conformemente a quanto disposto dall’art. 28 del GDPR dovrà essere indicato un soggetto che presenti garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del Regolamento e garantisca la tutela dei diritti degli interessati.

  • Le telecamere

Tutto ciò non sarà sufficiente, però, qualora il condominio (in viste di datore di lavoro) sia parte di un rapporto di lavoro subordinato con un dipendente (portiere, custode, giardiniere, etc.). In questi casi, infatti, occorrerà tener conto del particolare status di contraente debole, caratteristico del dipendente. A questo proposito, è opportuno, preliminarmente, precisare che, in presenza di un dipendente del condominio, prima di procedere alla deliberata installazione, prima di procedere alla deliberata installazione occorrerà presentare anche l’istanza per l’autorizzazione dell’installazione dell’impianto all’ispettorato del lavoro territorialmente competente, ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (producendo una relazione ove saranno indicati i motivi di sicurezza che hanno indotto alla richiesta di installazione dell’impianto).

Tra l’altro, lo stesso Statuto dei lavoratori, prevede che “il mancato rispetto della norma in materia di videosorveglianza, è punito con ammenda da euro 154 a euro 1540, o l’arresto da 15 gg ad un anno”.

Sul punto, è intervenuta la Corte di Cassazione precisando, con sentenza n. 38882/2018, che non è sufficiente il consenso prestato dal lavoratore in condominio, essendo necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Sul punto si rinvia ad una più ampia disamina che di seguito si pubblica.

Impianto di videosorveglianza: le regole da seguire

Ad ogni modo, una volta installato correttamente l’impianto di videosorveglianza, sarà necessario rispettare alcune regole fondamentali, anche alla luce della normativa Europea in materia di protezione dei dati.

La prima regola da seguire riguarda l’obbligo di segnalare la presenza dell’impianto. E’ necessario, infatti, segnalare la presenza di telecamere con appositi cartelli ed è necessario farlo subito prima dell’accesso all’area ripresa (quindi apporre il cartello sul cancello o portone di ingresso al fabbricato). Trattasi della cd. informativa di primo livello. Poi sul cartello si darà atto che la più estesa informativa (di secondo livello) contenente anche la specifica dei diritti dell’interessato può essere visionata presso lo studio dell’amministratore o richiesta direttamente in copia allo stesso.

Secondo le linee guida del Garante per la protezione dei dati personali, nonché del Comitato Europeo per la protezione dei dati in merito al trattamento dei dati personali effettuato tramite dispositivi video, questo adempimento equivale ad informare, ai sensi degli artt. 13 e 14 del GDPR ed in quanto tale il cartello esposto dovrà indicare una serie di elementi volti a fornire informazioni precise a chi accede all’edificio ed in particolare:

  • nominativo e dati di contatto del Responsabile del trattamento dei dati;
  • finalità del trattamento dei dati;
  • periodo di conservazione dei dati;
  • indicazione dei diritti degli interessati anche con rinvio ad un’informazione di secondo livello.

La seconda regola riguarda la corretta impostazione dell’impianto ed in particolare il suo angolo di campo. Infatti l’impianto dovrà inquadrare esclusivamente le aree comuni dell’edificio (accessi all’edificio, garage, giardini, pianerottoli, ecc.) e le aree pertinenti l’edificio stesso in cui è installato. In questo senso, laddove vi sia una ditta esterna che si è occupata dell’installazione, dovrà assicurare che sia rispettato questo adempimento per evitare la ripresa dei luoghi circostanti e di particolari che non sono rilevanti (strade pubbliche, edifici circostanti, esercizi commerciali, ecc.) in modo da evitare che il titolare del trattamento possa incorrere in sanzioni.

Discorso non diverso vale anche per la videosorveglianza privata, che (anche in assenza di specifico cartello-informativa) deve comunque avere un angolo visuale diretto a non oltrepassare la linea di confine con l’abitazione altrui (configurandosi altrimenti il reato di intrusione illecita nella vita privata altrui, sanzionabile ai sensi dell’art. 615 c.p.).

Sul punto, la Corte di Cassazione già nel 2006 precisò che l’impianto di videosorveglianza installato ad uso esclusivo del singolo condomino all’ interno della sua proprietà, ma con angolo visuale diretto alle aree condominiali antistanti all’ingresso della proprietà privata, non integrerà il reato di cui all’art. 615 c.p. essendo tali aree destinate all’utilizzo da parte di un numero indifferenziato di persone, dovendosi in ogni caso rispettare i limiti previsti in materia di impianti di videosorveglianza condominiali.

La terza regola riguarda, invece, i tempi di conservazione delle immagini: in questo caso, in assenza di riferimenti normativi, il Garante per la protezione dei dati personali ha precisato che le immagini non potranno essere conversate più a lungo di quanto necessario per le finalità per le quali sono acquisite (in funzione del principio di minimizzazione dei dati) ed ha indicato un termine limite di 24/48 ore. Chiaramente questo riferimento temporale vale per quegli impianti che effettuano registrazioni e che nella maggior parte dei casi presentano al loro interno una scatola nera per la cancellazione automatica delle stesse al termine indicato; diversamente, nel caso di impianti che effettuano solo monitoraggio in tempo reale, non sarà necessaria alcuna indicazione del relativo periodo temporale.

Qualora, nel caso di conclamate esigenze di sicurezza, il titolare del trattamento volesse prolungare i tempi di conservazione delle immagini, in alcun caso potrà farlo arbitrariamente, essendo in tal senso necessario inoltrare un’istanza al garante per la protezione dei dati agli indirizzi: mail: protocollo@garanteprotezionedeidatipersonali.it pec: protocollo@pec.garanteprotezionedeidatipersonali.it., indicando oltre ai motivi specifici e i rischi reali che giustifichino richiesta, anche una documentazione che possa descrivere il luogo in esame, allegando se necessario una piantina planimetrica e i relativi supporti fotografici. Ricevuta la richiesta, il Garante procederà ad una verifica preliminare ed entro un termine di 180 giorni, a seconda delle valutazioni effettuate, concederà o negherà il prolungamento dei tempi di conservazione delle immagini.

Accesso alle informazioni

Infine, una domanda: qualora il singolo condomino voglia accedere alle registrazioni, cosa dovrà fare?

E’ sicuramente diritto del condomino chiedere di visionare le registrazioni, ma in tal senso sarà necessario rispettare alcune condizioni:

  1. sussistenza di una circostanza grave (furto, rapina, danneggiamento, etc.) che riguardi la proprietà privata o le parti comuni dell’edificio;
  2. presentazione di specifica denuncia alle autorità competenti;
  3. formulazione di richiesta scritta rivolta all’amministrazione (a mezzo raccomandata a/r o pec), allegando copia della relativa denuncia.

Nella richiesta, oltre alle generalità dell’interessato e ad una breve descrizione dell’accaduto, sarà necessario indicare almeno orientativamente il giorno e la fascia oraria in cui è avvenuto il fatto. Ciò in quanto, oltre ad agevolare le indagini per le autorità competenti, tale indicazione consentirà di rispettare in pieno il principio di minimizzazione dei dati, per cui si accederà soltanto al frame relativo al giorno e ora indicati, con oscuramento delle restanti immagini.

Videosorveglianza in presenza del dipendente

L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori Legge n. 300 del 1970 – Titolo I – Della libertà e dignità del lavoratore recita:

  1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.
  2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
  3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Obblighi normativi e esclusioni

L’obbligo normativo sorge nel momento in cui il datore di lavoro intende installare un impianto audiovisivo o delle telecamere ed abbia dei dipendenti. Il comma secondo del novellato articolo quattro della legge numero 300 del 1970 esclude, invece, l’applicabilità del comma uno: quindi della necessità di autorizzazione ministeriale o accordo sindacale agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

Vi è poi la circolare numero 2 del 7 novembre 2016 dell’Istituto nazionale del lavoro la quale ha precisato che possono considerarsi strumenti di lavoro gli apparecchi, i dispositivi e gli apparati di congegni che costituiscono un mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa in contratto e che per tale finalità siano stati posti in uso o messi a sua disposizione.

Analogamente, il Garante della privacy con verifica preliminare del 16 Marzo 2017 documento web 8163433, in linea con l’ispettorato, ha confermato che gli strumenti di lavoro sono tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa ovvero direttamente preordinate all’esecuzione della prestazione lavorativa.

Per ciò che riguarda il concetto di personale dipendente si deve ritenere che la norma fa riferimento ad attività lavorativa subordinata e che pertanto non troverà applicazione in tutti gli altri casi.

La procedura

L’istanza per il rilascio dell’autorizzazione può essere presentata compilando il modulo predisposto dall’ispettorato del lavoro che è reperibile sul suo sito Internet alla voce “modulistica”.

Va presentata in marca da bollo da euro 16 con allegato un’ulteriore marca da bollo da euro 16 per il provvedimento di autorizzazione. Il modello debitamente compilato e firmato può essere inoltrato all’ufficio anche tramite pec. In questo caso il bollo sarà assolto per via telematica. A tal fine nel sito istituzionale è predisposto il modulo della dichiarazione sostitutiva della marca da bollo. Il datore di lavoro provvede ad inserire nella domanda i numeri identificativi delle marche da bollo utilizzate nonché ad annullare le stesse conservando gli originali.

L’istanza deve necessariamente contenere:

  1. i dati identificativi della ditta e del rappresentante legale con l’indicazione di quanti dipendenti vi sono nonchè la descrizione puntuale dell’attività aziendale;
  2. specifica indicazione delle esigenze che motivano la richiesta con la descrizione delle finalità che si intendono perseguire;
  3. ampiezza aziendale e indicazione della presenza o meno delle rappresentanze sindacali aziendali o delle rappresentanze sindacali unitarie nell’unità locale.

La dichiarazione è sottoscritta dal legale rappresentante che si impegna:

  1. ad installare l’impianto in modo da non ledere la privacy del dipendente e dunque a non posizionare le telecamere in luoghi riservati bagni o spogliatoi né riprendere il posto di lavoro (in condominio si pensi alla guardiola del portiere);
  2. a che le immagini siano custodite in modo da assicurarne la riservatezza al fine di escludere l’acquisizione delle stesse da parte di soggetti non autorizzati o che vengano diffuse all’esterno;
  3. è inoltre essenziale che venga data adeguata informazione ai dipendenti e venga data adeguata pubblicità nei locali aziendali anche ai soggetti terzi di trovarsi in area sottoposta a videosorveglianza.

All’istanza così compilata va allegata:

  • una relazione illustrativa delle esigenze di carattere organizzativo, produttivo, di sicurezza o di tutela del patrimonio poste a fondamento dell’istanza;
  • una relazione tecnica relativa alla specificazione delle modalità di funzionamento dell’impianto allegando schede tecniche dell’impianto monitor telecamere e del DVR,  non è più richiesta invece la planimetria dell’azienda con l’esatto collocamento delle telecamere nè è più necessario indicarne il numero.

Qualora la distanza presentata non sia completa l’ufficio procede a richiedere formalmente la documentazione al datore di lavoro dando un termine per l’integrazione. Decorso inutilmente il termine, la richiesta sarà rigettata. L’ufficio segue una consolidata prassi operativa che può prevedere anche un sopralluogo per verificare lo stato dei luoghi al fine di valutare la sussistenza delle ragioni tecniche produttive che possano giustificare l’installazione dell’impianto e verificare che le telecamere non riprendano postazioni fisse di lavoro.

Le sanzioni e il ravvedimento

Nel caso di violazione dell’articolo quattro dello statuto dei lavoratori l’ufficio ordina la cessazione della condotta criminosa ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo numero 758 del 1994 e contemporaneamente dà notizia di reato alla Procura della Repubblica a carico del legale rappresentante dell’azienda.

All’interno del verbale di prescrizione il funzionario deve indicare un termine congruo entro il quale l’impianto va disinstallato. Il datore di lavoro è ammesso al pagamento di una sanzione minima qualora entro il termine concesso per la disinstallazione ottenga la prevista autorizzazione dall’ufficio competente o raggiunga l’accordo sindacale. In tale ipotesi vengono meno i presupposti dell’illecito per cui l’ispettore lo ammette al pagamento in sede amministrativa di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (euro 387,00)  entro 30 giorni ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 758 del 1994.  Il pagamento della sanzione amministrativa comporta l’estinzione del reato e di conseguenza la comunicazione alla Procura della Repubblica che il soggetto ha ottemperato alla prescrizione con conseguente richiesta di archiviazione del procedimento penale.

La fase della progettazione

Con l’espressione inglese Data Protection by default and by design si fa riferimento alla necessità di configurare il trattamento prevedendo fin dall’inizio le garanzie indispensabili al fine di soddisfare i requisiti del regolamento e tutelare i diritti degli interessati tenendo conto del contesto complessivo in cui il trattamento si colloca e dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati.

Tutto questo deve avvenire prima di procedere al trattamento dei dati veri e propri secondo quanto afferma l’articolo 25 del Regolamento.  Si richiede pertanto un’analisi preventiva e un impegno applicativo da parte dei titolari che devono sostanziarsi in una serie di attività specifiche e dimostrabili. In altri termini secondo l’articolo il Titolare del trattamento deve mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate sia al momento della progettazione sia nella fase di trattamento vera e propria della rilevazione o registrazione delle immagini. Ciò affinché il trattamento dei dati sia conforme ai principi basi della disciplina in tema di protezione dei dati. Ciò significa che caso per caso il titolare anche con l’aiuto di un esperto dovrà valutare la necessità o meno di predisporre la cd. Valutazione d’impatto DPIA.

Infatti, l’articolo 5 paragrafo uno lettera F del regolamento impone il principio di integrità e riservatezza ai sensi del quale i dati personali sono trattati in maniera da garantire loro un’adeguata sicurezza a mezzo la protezione mediante misure tecniche organizzative adeguate onde evitare:

  1. trattamenti non autorizzati o illeciti;
  2. la perdita o la distruzione;
  3. il danno accidentale.

Nel valutare l’adeguato livello di sicurezza si tiene conto in special modo dei rischi presentati dal trattamento che derivano in particolare dalla distruzione, dalla perdita, dalla modifica, dalla divulgazione non autorizzata, dall’accesso in modo accidentale o illegale a dati personali trasmessi conservati o comunque trattati.

Rispetto al citato quadro giuridico è necessario porre in essere accorgimenti necessari a consentire la continuità su base permanente e il ripristino della disponibilità dei dati personali eventualmente sottratti.

Le tecniche in grado di assicurare l’ identificabilità degli interessati ai quali i dati personali trattati si riferiscono per limitare il rischio della loro consultazione da parte di soggetti non autorizzati come la pseudonomizzazione o la cifratura dei dati,  procedure idonee ad attestare,  verificare e valutare regolarmente l’efficacia delle misure tecniche organizzative al fine di garantire la sicurezza del trattamento.