beni comuni condominio

I beni comuni L’individuazione dei beni in comune, l'elenco di cui all'art. 1117 c.c., la destinazione tipica e l'esclusione in base al titolo

Beni comuni in condominio

Quando in un fabbricato coesistono proprietà esclusive e proprietà in comune, alle prime asservite, si ha la figura del condominio. La proprietà solitamente è divisa in senso orizzontale, cioè per piani o porzioni di piano. Purtroppo, nessuna norma stabilisce che, tra i compiti affidati all’amministratore, vi sia quello di redigere un elenco dei beni comuni. Per prima cosa occorre, quindi, stabilire quali sono i beni comuni.

L’articolo 1117 c.c. individua le parti dell’edificio che si presumono di proprietà comune, in quanto solitamente destinati a servire in maniera indifferenziata l’intera collettività condominiale. Tali beni sono divisi in tre categorie (necessari, di pertinenza e accessori) a seconda della diversa funzione svolta dagli stessi. La novella legislativa del 2012 (L. 220/2012) non ha apportato significative innovazioni alla norma in esame, ma si è limitata a fornire una definizione più articolata delle parti comuni tenendo conto di tutte quelle innovazioni tecnologiche (si pensi, ad esempio, agli impianti per la ricezione radiotelevisiva, da satellite e via cavo) intervenute nel corso degli anni e che oggi si ritengono essenziali alla funzionalità degli appartamenti.

I beni comuni ex art. 1117 c.c.

L’elencazione dei beni comuni fornita dall’articolo 1117 c.c. è la seguente:

  • beni comuni necessari: sono quelli indicati al punto 1 dell’articolo 1117 c.c. e comprendono il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli ànditi, i portici, i cortili e in genere tutti le parti dell’edificio necessarie all’uso comune. La L. 220/2012 ha aggiunto a questi beni comuni necessari i pilastri e le travi portanti;
  • beni comuni di pertinenza: sono quelli indicati al punto 2 dell’articolo 1117 c.c. e comprendono i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune. La L. 220/2012 ha aggiunto a tali beni, detti anche eventuali in quanto possono anche mancare, le aree destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
  • beni comuni accessori: sono quelli indicati al terzo punto dell’articolo 1117 c.c. e comprendono le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas. La L. 220/2012 ha aggiunto a questa elencazione anche gli impianti per il riscaldamento e il condizionamento dell’aria (in precedenza la norma parlava solo di impianti di riscaldamento), gli impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informatico, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condòmini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.

L’elencazione fornita dall’articolo 1117 c.c. non è tassativa né inderogabile. Ciò significa che ben possono aversi casi di condomìni nei quali vi siano beni comuni che il codice civile non ha indicato ed, inoltre, che lo stesso bene indicato tra i beni comuni dall’articolo 1117 c.c. può, invece, essere di proprietà del singolo condòmino: si pensi, ad esempio, al caso in cui il costruttore, in sede di alienazione del singolo appartamento, ceda all’acquirente l’intera proprietà del solaio di copertura del fabbricato.

Sulla scorta di quest’ultima considerazione è evidente che oltre alla destinazione di fatto all’uso comune, al fine di individuare quali sono i beni comuni, occorre risalire al momento di nascita del condominio e, quindi, l’amministratore deve aver riguardo non solo a quanto disposto all’articolo 1117 c.c., ma anche agli originari contratti di alienazione ed al regolamento di condominio contrattuale eventualmente richiamato, tenendo sempre ben presente che occorre un patto esplicito affinché il bene possa considerarsi di proprietà di un singolo condòmino e che, in mancanza, il semplice silenzio determinerà la proprietà comune del bene. Infatti, è all’originario atto di alienazione (il primo atto di vendita di un immobile facente parte del fabbricato) che la giurisprudenza attribuisce la nascita del condominio; quindi, è a questo momento che bisogna risalire per verificare se i beni identificati abbiano, o meno, natura di beni comuni. In pratica il costruttore, nel regolamento di condominio (contrattuale) o nel primo atto di vendita, deve riservarsi la proprietà di quelli che sono i beni in comune. In mancanza di espressa e specifica riserva il bene passa, sia pure pro quota, al condòmino, ma è da considerarsi ormai comune a tutti.

Il principio di separazione tra la proprietà del singolo condòmino ed i beni comuni non implica che i beni comuni siano necessariamente di proprietà di tutti i condòmini; difatti, l’amministratore potrà trovarsi di fronte alla cd. comunione parziaria, cioè a beni comuni che appartengono solo ad alcuni tra di essi (si pensi ad un condominio con più scale, ascensori ecc. dove questi sono comuni solo ai proprietari degli immobili cui servono ex art. 1123 III comma anche se lì si parla di spese per l’uso).

Durante la vita del condominio può accadere che le parti comuni subiscano delle variazioni. Si possono avere variazioni nella loro consistenza: ad esempio, a seguito della demolizione del tetto e la sua trasformazione in terrazzo di uso comune, oppure nella loro titolarità, come nel caso, ad esempio, della vendita dell’appartamento occupato dal portiere dopo che tale servizio è stato eliminato.

L’azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condòmini, è relativa ad un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condòmini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio.

D’altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall’articolo 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all’articolo 1317 c.c., secondo cui gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell’obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri.

L’esclusione in base al titolo

Dalla rubrica dell’articolo 1117 c.c., «Parti comuni dell’edificio», è evidente non solo il fatto che il legislatore abbia inteso porre in primo piano i beni comuni ma anche il fatto che il condominio negli edifici non è altro che un prodotto, cioè il risultato della comunione su determinate parti di un edificio senza le quali (parti comuni) non esisterebbe nemmeno il concetto di condominio.

Il medesimo articolo 1117 c.c. non si limita ad elencare le cose comuni di un edificio in condominio poiché contiene, nella prima parte, un’importantissima precisazione secondo la quale tutte le parti ivi elencate debbano considerarsi comuni «se non risulta il contrario dal titolo».

La genericità del termine titolo non è un errore del legislatore ma risponde ad una precisa volontà di rifarsi ad un più ampio concetto in cui accomunare tutti gli atti che possano contenere l’esclusione di un bene dal novero delle parti comuni di un fabbricato.

Difatti, come si è precisato in dottrina: «Titolo può essere il documento (contratto) costitutivo del condominio […] ma può essere pure il testamento quando il condominio è imposto o deriva da un atto di ultima volontà; od anche l’atto di donazione. Titolo è quindi quell’atto giuridico capace di attribuire o trasferire il diritto di proprietà».

Da quanto detto risulta che il regolamento di condominio non può essere annoverato tra i titoli capaci di escludere un bene dalle parti comuni di un edificio. Difatti, dall’articolo 1138 c.c. si evince che lo stesso regolamento contiene «le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione». È evidente che il codice civile non attribuisce al regolamento la facoltà di escludere determinati beni dal novero delle parti comuni di cui all’articolo 1117 c.c. È anche vero, però, che se alla formazione del regolamento di condominio partecipano tutti i condòmini esso diviene un contratto a tutti gli effetti e ben può contenere una clausola di esclusione di un bene dalle parti comuni. È questa l’ipotesi in cui il regolamento formato dall’originario costruttore e depositato agli atti del notaio, che contiene una clausola di esclusione, viene richiamato nel primo e nei successivi atti di compravendita per formarne parte integrante e sostanziale. In questi casi è evidente che il regolamento è solo l’involucro, il documento, che riportato nel rogito notarile, assume valore contrattuale con la sottoscrizione delle parti.

Infatti, per titolo, tuttavia, non si intende il titolo del soggetto individuato come proprietario della terrazza, ma deve intendersi l’atto costitutivo del condominio – ossia il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali – ove questo contenga in modo chiaro ed inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato con il consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni. (Nel caso di specie, la Suprema Corte, pur rigettando il ricorso, ha corretto la motivazione della sentenza impugnata la quale aveva erroneamente dichiarato che, per ritenere la proprietà esclusiva della terrazza, sarebbe stato necessario produrre il titolo di proprietà, e cioè il contratto con il quale il condomino aveva acquistato il diritto di proprietà, perché, in mancanza, la terrazza doveva presumersi di proprietà comune – Cass. Ord. n. 27846/2023.

Il titolo contrario non è l’unico strumento che può escludere un bene dalle parti comuni di un edificio in condominio; i beni in comune, per essere considerati tali, devono anche avere la destinazione all’uso (comune) tipica di tali beni.

La presunzione di comunione di cui all’articolo 1117 c.c. scatta, in altri termini, sia per le parti nominativamente indicate nell’articolo stesso, sia per quelle indicate solo in via generica, solo se all’atto della nascita del condominio sussista la destinazione all’uso comune su cui si fonda la presunzione e se non sussista, a tale momento, un titolo contrario: occorre cioè tenere conto sia della situazione di fatto (destinazione) sia di quella giuridica (titolo) esistente al momento in cui, per effetto della scissione in almeno due parti della proprietà dell’edificio, viene a nascere il condominio»  .

È importante sottolineare la definizione temporale dello stato di fatto di cui si parla poiché esso attiene al momento della formazione del condominio (al suo momento genetico quindi), e solo a quello, restando ininfluenti i successivi sviluppi del fenomeno. Invero, gli atti successivi a tale primo frazionamento possono solo determinare mutamenti nella composizione del condominio (caso comune è quello in cui l’originario proprietario venda ad altri ulteriori appartamenti e piani) ma non influiscono affatto sulla sua formazione, cioè sulla sua nascita, che si verifica in occasione del primo frazionamento della proprietà dell’edificio. Per cui quando un bene che dovrebbe ritenersi comune a tutti i condomini (ex articolo 1117 c.c.) per le sue caratteristiche strutturali è destinato all’uso o al godimento solo di una parte dell’edificio, viene meno il presupposto per la contitolarità necessaria.

Verificato lo stato di fatto in cui il bene si trova, se cioè sia effettivamente destinato ad un uso (utilità) comune, si può passare all’analisi del titolo così come esige il richiamato articolo 1117: «è all’atto costitutivo del condominio, cioè alla prima vendita, che occorre fare riferimento onde accertare se sussista o meno titolo contrario alla presunzione di cui all’articolo 1117 c.c., cioè se da tale atto emerga una chiara ed univoca volontà delle parti di riservare esclusivamente ad uno dei condòmini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune  ; parimenti, come si è detto, è a tale momento che si deve fare riferimento per accertare se uno di tali beni risulti invece destinato all’uso specifico di un appartamento o piano.

In tale scia, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni ed i servizi elencati dall’art. 1117 cod. civ., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti “ex lege” in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini; pertanto, come è avvenuto nel caso di specie, non è sufficiente che la proprietà individuale risulti dal titolo di acquisto della parte che si rivendica proprietaria esclusiva del terrazzo, ma occorre che essa risulti dagli atti di acquisto degli altri condomini o dal regolamento condominiale che essi abbiano espressamente accettato in occasione del loro acquisto, sicché, in difetto di tale prova, la presunzione di condominialità è destinata a spiegare piena efficacia (Cass. n. 27363/2021).

comunione beni

La comunione dei beni  Fonti e caratteri tipici della comunione dei beni. Uso e gestione del bene comune e scioglimento della comunione

Definizione di comunione

La comunione indica il fenomeno della contitolarità dei diritti, che ricorre quando più soggetti sono titolari di un unico diritto sul bene. Sul piano normativo, la definizione generale dell’istituto è fornita dall’articolo 1100 c.c., secondo cui la comunione sussiste quando «la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più soggetti», riferendosi alle sole ipotesi di contitolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento su cosa altrui.

Dall’articolo 1100 c.c. si ricava che gli elementi caratterizzanti della comunione sono:

  • l’unicità del bene comune. Il diritto di ciascun partecipante investe l’intera cosa comune. Si parla, quindi, di comunione pro indiviso (comunione su un bene indiviso), nella quale la cosa comune appartiene per intero a tutti i partecipanti;
  • la presenza di almeno due soggetti titolari di altrettanti diritti di eguale contenuto sul bene.

Il compartecipante può, però, anche rinunciare al suo diritto di comproprietà e, con la rinuncia, viene meno anche l’obbligo di corrispondere le spese per mantenere in vita la cosa (articolo 1104 c.c.).

In merito alla rinuncia «abdicativa» di un partecipante alla comunione, la Cassazione ha stabilito che la stessa rinuncia “ha una funzione satisfattiva liberatoria: ne consegue che il rinunciante, con la dismissione del proprio diritto (reale), si libera delle obbligazioni propter rem che vanno a carico dei rimanenti partecipanti”.

Il codice civile, agli articoli 1100 e seguenti, disciplina l’istituto della comunione ma nulla prevede in ordine all’oggetto di tale diritto; il primo comma dell’articolo 1103 c.c., però, stabilisce che «ciascun partecipante può disporre del suo diritto», avvalorando la tesi secondo la quale l’oggetto del diritto dei partecipanti alla comunione è il bene comune nella sua integralità e non una quota.

La quota, quindi, non è l’oggetto del diritto ma solo la misura di partecipazione agli ob-blighi e del diritto di disporre del bene attraverso la vendita, ma sicuramente non è la misura del potere di disporre del bene stesso.

Scopo della comunione è il mero godimento del bene (articolo 2248 c.c.) ed è questo elemento che la distingue dalla società in cui più persone si uniscono per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di ricavarne un lucro o guadagno (utile).

Le fonti della comunione

Avendo riguardo alla genesi della comunione, si possono individuare tre fonti principali:

  • il titolo;
  • la legge;
  • gli usi.

Il titolo

Il titolo è il contratto che esprime la volontà di più persone interes-sate a costituire una comunione che, proprio per tale motivo, è definita volontaria. Il titolo, oltre alla volontà di costituire e mantenere una comunione, può anche contenere le norme regolatrici della comunione stessa, norme che, in genere, prevalgono su quelle previste dalla legge (articolo 1100 c.c.) e che sono talvolta riportate negli atti di acquisto od in apposite convenzioni.

Il regolamento della comunione (articolo 1106 c.c.), che può essere approvato a maggioranza dai comunisti, può integrare od attuare le norme contenute nel titolo, ma non può sostituirsi ad esse.

La legge

Si ha comunione legale quando, in assenza di un titolo originario, la comunione trova il suo fondamento nella legge o perché trattasi di figure di comunioni speciali, come ad esempio la comunione forzosa del muro altrui (articolo 875 c.c.), espressamente previste dal diritto, ovvero di fattispecie quali, ad esempio, la comunione ereditaria che, per il solo fatto di verificarsi, vengono disciplinate ex lege dagli articoli 1101-1116 c.c.

Gli usi

Gli usi o consuetudini sono regole non scritte osservate dalla generalità dei consociati in modo costante ed uniforme per un congruo periodo di tempo, col convincimento che si tratti di norme giuridicamente vincolanti. Relativamente alla comunione essi rilevano nelle comunioni tacite familiari e nelle comunioni familiari montane. Per le prime (che ricorrono quando più membri della stessa famiglia, che vivono in comunanza di tetto e di mensa, cooperano, ciascuno con la propria attività, allo svolgimento di un’attività ricavandone i mezzi per il proprio sostentamento) bisogna far riferimento all’ultimo comma dell’articolo 230 bis c.c. che ammette il ricorso agli usi solo qualora non contrastino con le norme sull’impresa familiare. Per le seconde si fa riferimento all’articolo 10 della legge 1102/1971, che pone però gli usi, come fonte primaria, dopo gli statuti. Trattasi di istituti che trovano, ormai, scarsa applicazione.

Caratteri tipici della comunione

Il codice vigente delinea la comunione come istituto fondato sul concetto di contitolarità del diritto di proprietà o di un altro diritto reale.

Il primo carattere distintivo di tale istituto è la quota (articolo 1101 c.c., secondo comma), che rappresenta una parte ideale ed astratta dell’oggetto della comunione.

Nei rapporti interni, la quota rappresenta la misura del concorso «tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione»; nei rapporti esterni, la quota rappresenta, invece, il limite entro il quale il singolo può disporre del diritto (articolo 1103 c.c., primo comma).

La comunione, come istituto generale, ha carattere transitorio ed il codice stesso pre-vede che ciascun comunista ha la facoltà di chiederne lo scioglimento in qualsiasi mo-mento. Anzi, l’obbligo di rimanere nella comunione, derivante da esplicito patto in tal senso, è valido per non oltre dieci anni (articolo 1111 c.c., secondo comma).

L’assoluta mancanza di autonomia patrimoniale dei beni che costituiscono la comunione comporta tre effetti:

  • ogni comunista può disporre liberamente dei beni comuni;
  • i creditori personali del comunista possono rivalersi sui beni comuni, ovviamente nei limiti della quota del rispettivo debitore;
  • manca la previsione del beneficio della preventiva escussione dei beni comuni a fa-vore dei creditori della comunione.

Uso, gestione e disposizione del bene comune

Il comma 2 dell’articolo 1101 c.c. dispone che ciascun comunista concorre nei vantaggi e nei pesi della comunione in proporzione alla quota di cui è titolare.

A sua volta, l’articolo 1102 c.c. stabilisce che ciascun comunista può servirsi della cosa comune.

Dal combinato disposto degli articoli 1101 e 1102 c.c. si ricava che:

  • il singolo partecipante può usare e godere della cosa comune. In particolare, cia-scun comunista può godere della cosa comune in forma diretta, servendosi direttamente del bene comune, o in forma indiretta, attraverso l’acquisto dei frutti naturali e civili prodotti dal bene;
  • in mancanza di una diversa volontà dei comunisti, l’uso e il godimento della cosa da parte di ciascuno è proporzionale alla propria quota, in quanto ciascun comunista deve rispettare il diritto degli altri e non può goderne oltre quello proprio.

L’uso della cosa comune incontra, però, alcuni limiti:

  • nel servirsi della cosa comune, il compartecipe non può alterarne la destinazione economica originaria, né impedire agli altri partecipanti di farne uso secondo il loro diritto (articolo 1102, comma 1, c.c.). Ad esempio, il proprietario che occupa stabilmente una parte del cortile comune di un edificio mediante il parcheggio della sua autovettura, impedisce agli altri condomini di utilizzare lo spazio comune ostacolando, così, il libero e pacifico godimento degli altri comproprietari;
  • il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

Dette modalità di uso, però, non assumono carattere perentorio, ben potendosi stabilire delle deroghe: ad esempio, un uso basato su criteri di divisione spaziale (quale potrebbe essere la divisione di un giardino comune che viene frazionato in tante zone quanti sono i proprietari) o temporale (si pensi all’uso turnario dei posti auto). Il bene comune può essere addirittura ceduto in uso ad altri, nel qual caso, realizzandosi la costituzione di un diritto reale di godimento, è necessario il consenso unanime dei comproprietari (art. 1108 c.c., terzo comma).

Lo stesso dicasi per le attività di gestione fondate sul principio secondo il quale le deliberazioni approvate dalla maggioranza vincolano anche gli altri (articolo 1105 c.c., secondo comma), nel caso di decisioni su argomenti ricadenti nella sfera dell’ordinaria amministrazione. In tutti gli altri casi di straordinaria amministrazione, la maggioranza prescritta è quella dei due terzi del valore complessivo della cosa comune (Art. 1108 c.c., I co.).

Le iniziative individuali per la gestione della cosa comune non sono, quindi, consentite al di fuori di quelle necessarie per la conservazione od il miglior uso della stessa.

Per gli atti di disposizione del bene comune (vendita, donazione ecc.), l’articolo 1108 c.c., terzo comma, prevede la necessità del consenso unanime dei comunisti, quando si ha riguardo alla totalità del bene; mentre il singolo partecipante può disporre dello stesso diritto solo nei limiti della propria quota. Ciò vale sia per gli atti di alienazione o di rinuncia, sia per gli atti di costituzione di diritti reali limitati sulla cosa comune.

Lo scioglimento della comunione

La comunione si scioglie con la divisione, che può avvenire con una spartizione mate-riale delle cose che compongono il bene comune, ove sia possibile, oppure con la ripartizione della somma ricavata dalla vendita della cosa stessa.

Se i comunisti sono più di due, è ammesso uno stralcio di quota per chi vuole trarsi fuori dalla comunione.

In tema di scioglimento giova a questo punto ricordare la disciplina contenuta nel co-dice civile agli articoli 1111 e 1112 c.c.

La prima iniziativa individuale che incide sui diritti dei comunisti è la richiesta di sciogli-mento della comunione, che ognuno dei partecipanti può sempre proporre, ricorrendo, eventualmente, all’autorità giudiziaria in caso di opposizione degli altri contitolari.

Alla divisione della comunione si applicano, per espresso rinvio fattone dall’articolo 1116 c.c., le disposizioni sulla divisione ereditaria contenute negli articoli 713 e seguenti del codice civile. Anche in tale ipotesi, è da sottolineare, vi è un equo contempera-mento degli interessi (comuni ed individuali) operato dall’articolo 1111 c.c. primo comma, che affida all’autorità giudiziaria la facoltà di evitare lo scioglimento immediato della comunione nei casi in cui esso possa recare danno agli altri comunisti, stabilendo, così, una dilazione dello scioglimento stesso entro il limite dei cinque anni.

L’autorità giudiziaria può, addirittura, considerare irricevibile la richiesta di scioglimento nel caso in cui il particolare uso cui è destinato il bene comune non lo consenta (articolo 1112 c.c.). Ciò vale in particolar modo nel caso in cui si tratti di beni condominiali dove il legislatore ha voluto, imponendo tale divieto, salvaguardare il fondamentale aspetto di accessorietà o sussidiarietà del bene comune rispetto alla piena proprietà individuale cui è asservito.

Particolare cenno deve farsi a proposito della forma che deve assumere l’atto con cui è deciso lo scioglimento della comunione. Se l’atto scritto — a norma dell’articolo 1350 c.c. n. 11 — è necessario per lo scioglimento della comunione su beni immobili, esso non occorre, invece, per la semplice attribuzione di un godimento separato del bene comune, ferma rimanendo la comproprietà fra gli aventi diritto. Per quest’ultima ipotesi, è perfettamente valida anche una semplice convenzione verbale (Cass. 1428/1984).

Nel caso di proprietà pro indiviso di un edificio urbano, l’immobile può ritenersi comodamente divisibile, ancorché la sua divisione in natura comporti la costituzione di un condominio implicante di per sé la persistenza della comproprietà sulle parti comuni dello stabile.

Al fine di assicurare la piena imparzialità in sede di formazione delle porzioni, l’articolo 729 c.c., nel caso di quote uguali, prevede l’assegnazione mediante estrazione a sorte. Nel caso, invece, le porzioni siano disuguali, si procederà mediante attribuzione diretta all’avente diritto, con eventuale pagamento in denaro di conguagli. Il sistema dell’attribuzione diretta costituisce pur sempre eccezione alla regola, possibile, ad esempio, anche quando per effetto del sorteggio potrebbero determinarsi conseguenze (da identificare e precisare dal giudice di merito), tali da portare ad un frazionamento gravemente antieconomico dei beni comuni (Cass. 834/1986 e 16082/2007; Corte Appello Napoli, Sez. 2, 4167/2008).

posto auto condomino disabile

Posto auto vicino per il condomino disabile Il condomino con capacità di deambulazione ridotta ha il diritto di parcheggiare il più vicino possibile al portone di ingresso alla sua abitazione

Posti auto in condominio

E’ quanto ha stabilito con sentenza del 02/12/2021 il Tribunale di Verbania. La fattispecie prende le mosse dall’impugnativa della delibera assembleare con cui il condominio aveva rigettato la richiesta di un condomino nella parte in cui chiedeva che uno dei posti auto all’interno del cortile condominiale ed in prossimità dell’ingresso del suo fabbricato, fosse assegnato ai portatori di handicap con contestuale accertamento del diritto dello stesso condomino ad ottenere l’assegnazione di detto posto in quanto affetto da disabilità.

Legge 13/1989

Particolarmente interessante questa pronuncia in considerazione che tra le altre sue difese, il convenuto condominio precisava che la richiesta non avrebbe avuto fondamento normativo atteso che, dovendosi applicare la legge n. 13 del 1989, essa avrebbe valore solo per gli immobili costruiti successivamente, mentre il condominio era stato edificato in epoca precedente alla emanazione della detta legge.

Motivava altresì che il condomino era anche proprietario di un garage posto a poca distanza dall’ingresso e che egli poteva usufruire alla pari degli altri condomini dei sette stalli in uso a tutti. Infine, che questi confinavano anche con area pubblica su cui esisteva già un parcheggio dedicato ai portatori di handicap.

Diritto del disabile

L’importanza di questa sentenza consiste nel fatto, che il tribunale dopo aver collegato il diritto del disabile a quello ad una normale vita di relazione ex art. 2 Cost. lo ritiene preminente rispetto a quello della proprietà (art. 42 co. 2 Cost) testualmente “che può al contrario subire limitazioni al fine di assicurare il rispetto del dovere di solidarietà sociale di cui appunto all’art. 2 Cost.”.

Per cui, pur escludendo nel caso di specie l’applicazione della legge n. 13 del 1989 in quanto il condominio era stato costruito in epoca antecedente; finisce con il riconoscere al condomino ricorrente:

1) il diritto ad ottenere che il condominio destini uno dei posti auto ubicati nelle vicinanze dell’ingresso a parcheggio per portatori di handicap;

2) ad ottenere che detto posto gli venga assegnato atteso il riconoscimento di portatore di handicap sensibilmente ridotta.

torrino scale

Torrino scale: proprietà comune Per la Cassazione, il torrino sovrastante le scale è di proprietà comune anche se i lastrici solari se li è riservati il costruttore

Torrino scale

La Corte di Cassazione (cfr. n. 11771/2019) ha affermato la proprietà dei condomini e non del costruttore che pure si era riservata la proprietà dei lastrici. Evidenziava la Corte che il primo giudice aveva correttamente opinato nel senso che i titoli di acquisto dei singoli appartamenti escludevano dalla comunione i lastrici solari, non già i torrini sovrastanti le “casse – scala”; che del resto indubitabile era la differenza strutturale tra i lastrici ed i torrini, vieppiù avvalorata dalla suddivisione delle spese relative alla manutenzione dei torrini.

Testualmente: “Invero la corte territoriale in modo inappuntabile ha recepito il dictum di prime cure, che a sua volta in maniera ineccepibile aveva rilevato (in relazione all’incipit dell’articolo 1117 c.c.: “sono oggetto di proprietà’ comune dei proprietari di diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo: (…)”) che “i titoli di acquisto dei singoli appartamenti non escludevano dalla comunione i torrini, ma solo i lastrici solari”.

Lastrico solare e torrini scale

Tale determinazione è da considerarsi del tutto legittima in quanto in tema di condominio negli edifici, per lastrico solare deve intendersi la superficie terminale dell’edificio che abbia la funzione di copertura – tetto delle sottostanti unità  immobiliari, comprensiva di ogni suo elemento, sia pure accessorio, come la pavimentazione, ma non estesa a quelle opere ivi esistenti che, sporgendo dal piano di copertura, siano dotate di autonoma consistenza e abbiano una specifica destinazione al servizio delle parti comuni; sicchè non possono ricomprendersi nella nozione di lastrico solare i torrini della gabbia scale e del locale ascensore con la relativa copertura, i quali costituiscono distinti e autonomi manufatti di proprietà  condominiale sopraelevati rispetto al piano di copertura del fabbricato (cfr. Cass. n. 27942/2013).

Del resto in sede di interpretazione del contratto, il giudice di merito, ove ritenga di aver ricostruito la volontà delle parti sulla base delle espressioni letterali usate, non ha l’obbligo di fare ricorso ai criteri ermeneutici sussidiari, la cui adozione è legittima (e necessaria) solo quando l’interpretazione letterale dia adito a dubbi (cfr. Cass. n. 9438/2000).